Barbara Guazzini, Il travaso

Nei racconti che ho letto dell’esordiente Barbara Guazzini è sempre presente il tema della morte, in varie declinazioni: un’infermiera che lavora all’obitorio, due genitori che decidono di sopprimere il cane di casa senza dirlo alla loro bambina, un figlio che deve occuparsi delle spoglie del padre. Tuttavia non c’è nulla di morboso nei suoi testi. Al contrario, le situazioni vengono narrate con un tono molto quotidiano e concreto, con uno sguardo che è profondamente partecipe e umano. In altre parole, c’è molta vita in queste storie sulla morte. Il racconto che ho scelto per ’tina lo mostra molto bene, mettendo in scena un commovente esempio di amore filiale.

Barbara Guazzini, Il travaso

Avrò avuto sei anni. Una nevicata poderosa e inaspettata si era accomodata sui tetti e nelle vie. Io, per la verità, la notte prima avevo pregato fino a sfinirmi. Ti prego Gesù, fa’ che domani sia tutto bianco, e fa’ che babbo non vada a lavoro. L’oggetto dei miei desideri si era materializzato e io credetti di avere tra le mani la formula magica. La scuola rimase chiusa. Io indossai gli scarponcini marroni col pelo dentro, i guanti di camoscio, la giacca a vento verde-azzurra e la sciarpa a righe. Mia madre si vestì di bianco, sembrava la Regina della Neve, rideva, rideva, con la punta del naso arrossata e umida e i pomelli sulle guance come Heidi. Incrociavo gli altri bimbi per strada e mi pareva che mi guardassero riconoscenti, come se sapessero che quel ben di Dio era merito mio.

Mio padre ci fece la sorpresa di raggiungerci al parco. A dire la verità, l’avevo aspettato per tutto il tempo, e quando lo vidi spuntare mezzobusto dietro la siepe, che delimitava il perimetro del prato, gli corsi incontro. Lui si fermò, sorrideva, e teneva le braccia allungate verso di me pronte ad accogliermi. Vieni qui, pulce, quanto bene mi vuoi, eh, amore mio?, disse col tono di voce dei segreti. Io allargai le braccia più che potei. Quanto il mondo e poi fino alla luna e ritorno, gli risposi.

 

Questa volta, invece, mio padre non è proprio voluto arrivare, si è sciolto come la neve al sole e ha preso la via dei tombini. Eppure io l’ho aspettato, per tutto il tempo. Ero a venti, trenta metri da lui, davanti all’ingresso del carcere, seduto in attesa sulla panchina fatta con le barre di metallo a rotaie tronche. Oggi doveva essere il gran giorno. Lo stavo immaginando spuntare, poco alla volta, nello spazio che sarebbe cresciuto fiacco tra lo stipite e il battente di quel portone a motore che blinda le vite delle persone. E facevo le mie ipotesi. Terrà la testa bassa per riabituare gli occhi alla luce diretta del sole. Sarà travolto dalla vita fuori e gli morirà il respiro. Avrà indosso i vestiti nuovi che gli ho fatto consegnare, forse gli andranno un po’ larghi. Avrà le mani dissanguate e fredde. Mi guarderà e dirà È troppo tardi?

Invece mi vedo venire incontro un uomo in divisa, e solo quando mi è prossimo riconosco che è Riccardo, la guardia che quando da bambino andavo ai colloqui mi regalava le caramelle. Mi sembra che abbia la faccia scura e accartocciata, come cuoio incartapecorito al sole, e dice Dante, è successa una cosa. Vieni, entra, ti vogliono parlare.

Oltre l’ingresso c’è un tipo basso e largo, vestito da medico, che senza tanti ghirigori dice Sei il figlio del detenuto Fanti? Io annuisco e lui continua Tuo padre ha avuto un arresto cardiaco, abbiamo provato a rianimarlo ma niente. Tuo padre è morto.

Lo dice così, senza un mi dispiace – che se anche non era proprio vero che gli dispiaceva, accanto a tuo padre è morto ci sarebbe stato da dio. Allora io gli rispondo Va bene – proprio testuale Va bene – e mi volto a guardare in tralice Riccardo, che è rimasto un passo indietro e mi sostiene per un braccio, e ripeto anche a lui che Va bene, mentre penso che neppure da morto il detenuto Fanti è tornato a essere il signor Fanti. Nemmeno una riabilitazione postuma gli è toccata.

Riccardo punta la sua faccia secca sul muso del medico – che non sa come si fa a dire a uno che gli è morto il padre –, e sembra che con gli zigomi acuti voglia infilzargli gli occhi. Mi rendo conto che dovrei essergli grato, perché vuole proteggermi, ma ormai mi sono fissato su quel particolare – il detenuto Fanti – e inizio a ridere a singhiozzo, come se ancora non avessi deciso se sia il caso di ammazzarmi di risate o di piangere fino a farmi venire le convulsioni. Penso a mio padre che si sarà dovuto presentare come il detenuto Fanti a Dio, o a chi per lui, ammesso che lassù ci sia un guardiano.

Il medico continua a parlarmi in modo asettico, con le mani  nelle tasche del camice aperto. Si vede che in questa faccenda non vuole entrare, che teme di sporcarsi. Mi dice che stanno facendo le verifiche di routine, che presto mi restituiranno il corpo e gli effetti personali. E aggiunge Organìzzati per farlo trasportare in giornata alla camera mortuaria, perché qui non può più stare. Io gli faccio cenno di aver capito – devo sembrare uno docile che sta alle regole – invece con tutto l’odio che posso penso Ma sì, stronzo, fammi pure a fette sottili, e metti la carne a macerare nell’acqua del water. Del resto, sono solo il figlio del detenuto Fanti.

Allora? Me lo portate questo verbale?, dice il medico ad alta voce. Da dietro le sue spalle arriva di corsa una guardia che gli porge un fascicolo sgonfio; lui lo apre, mi dà uno dei due fogli che lo compongono e mi dice di firmare in calce. La penna trema tra le dita e la prima lettera viene fuori uno scarabocchio. Mi cade l’occhio sull’altro foglio, riconosco la calligrafia di mio padre, e capisco che si tratta del modulo del fine pena.

Devi farla leggibile, mi ordina il medico, che di certo ha notato lo sgorbio e la mia esitazione. Io eseguo, ma alla fine mi accorgo di aver firmato col nome di mio padre. Sto per dirglielo, ma Riccardo mi precede. Il medico seccato traccia una riga brusca sui miei tratti incerti, ci passa sopra più volte, fino a che il nome di mio padre rimane sepolto sotto una linea nera spessa e calcata.

Rifalla, qui accanto, mi fa lui, e indica un punto preciso del foglio.

Raccolta la firma giusta, il medico passa il fascicolo alla guardia di prima e gli dice Questa va in archivio, tra le pratiche evase. Mi saluta con un arrivederci, e se ne va a passo svelto, seguito dallo svolazzìo vivace dell’orlo del camice.

Riccardo mi accompagna verso il portone d’ingresso, senza mai farmi mancare il sostegno del suo corpo. Sta per salutarmi, ma poi ci ripensa. Si toglie la giacca della divisa di un blu polveroso, l’appende a un chiodo storto nella guardiola ed esce insieme a me. Appena fuori, vorrei chiedergli se ha sentito l’ultima parola che mio padre ha pronunciato, ma poi non gli chiedo niente, per paura che la sua luce si sia spenta senza poesia. Ho paura di sapere che non è stato il mio nome a finirgli sulle labbra.

Riccardo mi ha aiutato a pensare ai vestiti, al funerale, alle pratiche per il posto al cimitero. L’ho già dovuto fare per il mio, ha detto. Ovunque andassimo, lo hanno creduto mio zio e noi non abbiamo mai negato. Quando quello che veste i morti ci ha avvertito che le scarpe non sarebbero entrate, per via dei piedi che si sono gonfiati troppo, lui si è offerto di andare a comprarne un paio di due numeri più grandi. Le prendiamo nere o marroni?, mi ha domandato. Le puoi scegliere tu?, gli ho chiesto. A mio padre piacevano con la punta, ho aggiunto.

 

Ho organizzato il trasferimento del corpo di mio padre tutto d’un fiato, come se arrivare alla svelta alla fine della faccenda della tumulazione fosse una questione di vita o di morte – della mia vita e della mia morte. Quando, poi, era già tutto fissato, mi sono sentito svuotato nel petto e ho detto a Riccardo Ho paura di non avere più il cuore. Mi hanno messo al mondo in tanti mesi, e io smanio per farlo sparire in qualche ora.

Non puoi fare nient’altro, ha detto lui, e mi ha abbracciato, con una stretta da uomo a uomo che ancora non avevo conosciuto.

 

Adesso mi trovo chiuso tra le pareti crepate di questa specie di cella frigorifera, e mi viene da pensare a che roba volgare e imbarazzante sia la morte, con la decomposizione dei tessuti, la rigidità, il banchetto dei vermi sulla bocca che ti baciava, sugli occhi che ti guardavano. E penso a quanta cura usino i vivi per fare in modo che i morti non si muovano dalle loro bare. Le sigillano, le sotterrano sotto quintali di terra o le murano. Dove volete che vadano, quei poveri cristi.

 

Appena entrato, la prima cosa che ho notato non è stato il tuo viso, ma l’angolo che i tuoi piedi formavano. Che ridicoli, babbo, i tuoi piedi senza passi, aperti come le zampe delle papere. Il becchino, qui fuori, deve avermi letto il pensiero perché è arrivato, ha avvicinato le punte, e li ha legati con una corda. Per non farli irrigidire spalancati, ha detto. E a me è venuto un nodo in gola, e ho pensato Che cazzo fai, becchino, così lo farai inciampare, non si legano i piedi di un morto.

Ti libero io, appena questo becchino si leverà dai coglioni, te lo prometto.

 

Guardo la tua fronte, larga, lucida, tesa.

A cosa pensi, babbo?

 

Quando prima ti ho toccato la mano, mi aspettavo che fosse la stessa di quando ero piccolo – calda, forte e sicura – e non un tòcco di carne dura. Ed è in quel freddo muto che ho realizzato cosa sia la morte, e che tu sei morto. Tu sei morto, babbo, e io sono già stanco di vivere e mi dovrei vergognare di dirlo a te, immobile e composto su questa tavola nuda. Ieri sarei dovuto venire al colloquio per dirti Non so come farò con la fatica che ho già nelle ossa, puoi aiutarmi tu? Ti avrei detto che da quando sei entrato in prigione, io non ho più voluto amare nessuno, ma che non ci sono riuscito.

Invece ora mi ritrovo nell’ultima stazione in cui arrivano i morti, prima di sparire per sempre dagli occhi dei vivi. Chissà se le anime rimaste nude restano in eterno accalcate qui o se ci lasciano soltanto qualcosa. O se, quando la messa è finita, tornano a casa con i loro parenti per non perderli d’occhio mai.

Ehi, anime, ci siete? Mi state ascoltando?

 

Devo essermi addormentato per via dei pensieri che si danno spallate e nel sonno mi sono congelato. Mi ha svegliato un movimento convulso del corpo, un sussulto amplificato che equivale a un terremoto con epicentro nel nucleo di ogni mia cellula. Stavo sognando milioni di formiche rosse che si lavoravano i miei piedi in decomposizione. In automatico li guardo, muovo le dita, e mi pare di non averle più. Il sangue deve essersi fermato per la posizione seduta che mantengo da ore. Muovi le dita, Dante, muovile ancora. Pian piano le dita tornano sensibili e le formiche se ne vanno.

 

Guardo la tua fronte larga, lucida, tesa.

Io ti chiedevo A cosa pensi?

Tu rispondevi Lo vuoi sapere? Avvicinati.

 

Il becchino mi ha fatto uscire. Devo prepararlo, ha detto. Questo è abituato a trattare la morte all’ingrosso, e i morti un tanto al chilo, ho pensato. Poi mi fa rientrare Vieni, è pronto. Non vuoi andare a casa? Sei sicuro di voler rimanere qui per la notte?, mi chiede. Voglio stare con lui, rispondo. Lui mi lascia la chiave e se ne va trascinandosi dietro nei passi una stanchezza che sembra di secoli.

 

Non so cosa ti abbia fatto, quell’uomo, ma il tuo viso ora ha un’espressione sovrannaturale, nulla a che vedere con la rilassatezza umana nella posa del sonno. È l’eternità e la distanza delle statue. E la tua pelle non è rosa, non è bianca, non è grigia. Non è pelle. Deve essere la guaina con cui si rivestono i morti, per nasconderci sotto ciò che della morte fa paura ai vivi. È uno strato di cera, oppure è un budello che contiene carne, muscoli e ossa che stanno andando a male.

Eppure sei tu, babbo, sei quello che riempiva di carte la borsa del lavoro con la fibbia in metallo, che andava a vivere fuori da casa per delle ore, e tornava sempre, col buio, per amarci ancora. Tu sei il mio babbo. Il detenuto Fanti non è mai esistito.

Ti ho fatto vestire col maglione che avevi l’ultimo giorno in cui mi accompagnasti a calcio e adesso finalmente ti riconosco. Ti ricordi? Manuel prende la palla, corre verso la porta – è pesante, sgraziato, sembra un somaro che accenna a sgroppare – io lo raggiungo, lui non mi vede, rallenta, forse è convinto che nessuno lo possa fermare. Invece arrivo io, sono a meno di un metro, lo affianco, gli prendo il pallone e scatto all’indietro, sono il più forte, corro, evito gli altri giocatori, arrivo alla porta avversaria e, a cuore e respiro fermi, tiro. Gol. Tu sei seduto in tribuna. Hai alzato le braccia, le scuoti, esulti come se avessi vinto il campionato del mondo, come se fossi il migliore di tutti i figli mai nati, e a me viene da piangere. Checca!, mi urla Manuel. Ma io me ne frego, mi lascio andare e piango. Finita la partita tornammo verso casa, io crollai addormentato sdraiato sul sedile di dietro della macchina. La mattina dopo mi svegliai nel letto, senza ricordare come ci fossi arrivato.

 

Tu riposa tranquillo, ché ci sono io a vigilare su di te, e perdonami se ieri non c’ero, ma imparare a non amare impegna tutte le energie, le sperpera, e ti lascia esausto e vinto, perché tanto non ce la fai. E allora ti tocca amare di nascosto, da te stesso e dagli altri, ed è uno strazio, babbo, molto peggio che dover odiare.

 

Guardo la tua fronte, larga, lucida, tesa.

Io ti chiedevo A cosa pensi?

Lo vuoi sapere? Avvicina la fronte alla mia.

 

Mi sono addormentato di nuovo, sgualcito da ore su questa seggiola di plastica, con la testa abbandonata sulle braccia appoggiate sul tavolo. Apro gli occhi, con la fatica della realtà che mi frana addosso. Dall’altra parte del tavolo c’è mia madre.

Non ci vedevamo da mesi. Ha in testa dei riccioli che sembrano un groviglio di serpi, ed è senza trucco, la bocca pallida e grinzosa, con una crepa in un angolo. Comunque è qui, è venuta, e la nostra famiglia disastrata si è riunita. Ci è dovuto scappare il morto perché accadesse. Il tuo uomo ti ha lasciata venire?, sto per chiederle, invece rimango in silenzio per non darle il la. Mia madre prende dei respiri veloci, come se avesse corso e le mancasse l’aria; poi dà un paio di colpi di gola per preparare la voce. Dopo qualche istante, infatti, mi chiede come sto.

Splendidamente, non si vede? E tu?, le dico, senza mai sollevare lo sguardo da mio padre. Lei non risponde. Così rimaniamo in silenzio, spartiti dal corpo di mio padre che sembra un manichino dei Grandi Magazzini per quanto è innaturale nella posa.

 

Sarà la terza o la quarta volta che la becco a buttarmi un’occhiata da sotto in su. Se lo rifà mi alzo ed esco. Questa madre mi è morta davanti un giorno sì e l’altro pure, senza mai preoccuparsi se nei momenti di sua assenza io mi staccavo di un bisogno alla volta, e imparavo a fare a meno di lei. Oggi la distanza tra noi la potrei misurare in anni luce. Non le chiedo, però, che senso abbia la sua venuta qui, tanto la risposta ce l’ho già.

 

Lei ha smesso di guardarmi, se ne sta ferma e composta, come se adesso nella stanza i morti fossero due. Poi scatta, tira fuori dalla borsa una busta da lettere e l’appoggia sopra le mani giunte di mio padre. «È per te» dice, affrontando i miei occhi per la prima volta. «Me l’ha data l’ultimo giorno che sono andata a trovarlo, un paio di settimane fa. Non era stato bene, ma mi ha fatto promettere di non dirti niente» aggiunge, con la voce senza intonazione. Ha detto la verità, c’è scritto sopra il mio nome con la calligrafia minuta e allungata di mio padre.

La guardo e la riguardo, quella busta bianca che sta lì da un po’, esattamente dove l’ha messa lei.

 

Mia madre si è addormentata col braccio disteso appoggiato sul corpo di mio padre. Il suo amore postumo è rivoltante, vorrei addormentarmi e risvegliarmi solo quando lui sarà già sotto terra e lei di nuovo sparita. Lei è uno di quei ragni femmina che sacrificano il maschio dopo l’accoppiamento, si fanno inseminare per dare un seguito sciagurato alla specie e dopo se ne cibano. Poi ci piangono sopra due lacrime, e voltano pagina.

 

Mi sveglio col becchino che mi bussa sulla spalla. «Ragazzo, devi uscire, è ora di chiudere la bara, devo procedere.» Io stento a realizzare dove mi trovi, poi la realtà mi ricopre e soffoca, come se fossi sotto il fianco ghiacciato del monte, che si è separato dalla roccia e corre rapido a valle. Mia madre non c’è più, la lettera invece sì.

Il becchino mi guarda spazientito – ha fretta – peccato che io non sia in grado di spostare un solo dito. È come se le cose non dette, gli abbracci saltati mi si siano caricati sul petto e sulle spalle, per schiacciarmi.

Eppure è arrivato il momento.

Ho già dimenticato la tua voce di prima. Rammento invece quella che, come un filo nato chissà dove lontano da lì, attraversava e tesseva la sala dei colloqui in carcere. Metto nella tasca dei tuoi pantaloni una mia fototessera, e appoggio la fronte sulla tua, a occhi chiusi, per abituarmi a non vederti ma sentirti e basta.

 

La tua fronte, larga, lucida, tesa.

Io ti chiedevo A cosa pensi?

E tu mi dicevi Lo vuoi sapere? Vieni qui. Appoggia la fronte alla mia. Li senti i miei pensieri? Io i tuoi li sento, Dante.

Sì, anch’io sento i tuoi.