GIUSEPPE BRAGA , La leggenda del saggio bevitore

GIUSEPPE BRAGA

Giuseppe Braga è autore di una divertente raccolta di saggi autobiografici intitolata “Ma tu lo conosci Joyce?” nella quale analizza la vita agra e frustrante dello scrittore in attesa di pubblicazione. Da tempo seguivo le vicende di Giuseppe e quando mi ha chiesto di scrivere l’introduzione al suo libro ho accettato con piacere. Appena il volume è stato stampato, ha voluto portarmene una copia e siamo andati a bere una cosa in un bar per festeggiare. Giuseppe però mi ha detto di non potersi fermare molto perché quella sera aveva un concerto. Pensavo dovesse andare ad assistere allo show come spettatore e invece no: si sarebbe esibito lui stesso al Rolling Stone di Milano come cantante in una cover band. Non avevo la più vaga idea del fatto che cantasse (anzi, a dirla tutta, conoscendo i suoi modi pacati e dimessi, mi appariva persino una cosa assurda), però gli ho immediatamente chiesto di scrivermi un resoconto della serata per ‘tina. Eccolo.

LA LEGGENDA DEL SAGGIO BEVITORE
Cronaca semiseria di una serata milanese molto, parecchio rock

Il saggio bevitore è un ragazzo dall’età poco decifrabile, con una barba incolta e un naso schiacciato e storto da pugile. Occhi vitrei e palpebre a mezz’asta. Ha due gambe traballanti e instabili, muove le braccia con gesti incerti, sembra che stia litigando con qualche fantasma. La sua lingua è impastata, più che parlare farfuglia. Come un pugile suonato e a un passo dal knock-out, gira intorno a un tavolino – anch’esso traballante –, in precario equilibrio sulle gambe. Non avendo le corde del ring, lui, il saggio bevitore, s’aggrappa a una bottiglietta da 33 cl. di Beck’s. Con l’altra mano traffica con una sigaretta, sembra farcela, invece no, ne sfila un’altra dal pacchetto accartocciato di Diana blu, se la posa sulle labbra, ma gli cade pure quella. Ci rinuncia e, come se fosse la cosa più naturale di questo mondo, prende a raccontarmi la sua vita. Ed è così che io, contro ogni mia volontà, ho modo di conoscere la sua, seppur alcolica, infinita saggezza.

E d’accordo che sono le tre di notte, d’accordo che non è una notte qualsiasi, ma che è la notte di Pasqua, d’accordo che m’ero appena esibito col mio gruppo, nientemeno che al Rolling Stone, d’accordo che si tratta di passioni, ma io, ad incontrare, la notte di Pasqua, alle tre, davanti al furgoncino che vende panini e salamelle, in corso XXII Marzo, angolo Marinai d’Italia, a Milano, un tal tipo umano, proprio non ci pensavo. Poi mi sono chiesto, mentre il saggio bevitore, evitato accuratamente da tutti gli altri avventori, più saggi di lui (miei compagni musicisti inclusi), aveva scelto me come bersaglio, vittima privilegiata e m’impestava col suo alito micidiale e con le sue teorie, mi sono chiesto, ma io che ci faccio qui? Che sono le tre di notte, della notte di Pasqua, alle prese con un giovane barbuto che non si regge in piedi e che non mi lascia mangiare la mia salamella (con peperoni e maionese) in santa (proprio il caso di dirlo in una notte come questa) pace? Devo forse espiare qualche peccato? Ho commesso, senza saperlo, qualche tremendo atto impuro? Quale colpa era ricaduta su di me? Come c’ero finito lì? Già, perché ero lì?

Meglio finirla con questi bizzarri misteri pasquali, adesso sarà opportuno ripartire dal principio.

Fermo immagine, riprendiamo dal principio. Riavvolgo il nastro, ricomincio e spero di non fare la fine di Bill Murray con la marmotta. Nel senso che spero di uscirci, da ‘sto incubo…

Sono un giovane ultratrentenne milanese – automunito, di bella presenza – e, oltre a essere un’altra serie di cose che non credo dirò in questa sede, sono il cantante di una pop rock band, i Fix You (potrei dire, senza timore d’essere smentito, che sono il loro insostituibile front man).

Fix You, dicevo. Mi siano concesse due parole, a riguardo. La nostra non è una band qualsiasi. Noi siamo la prima – la prima! – cover band (perlomeno attiva nella cerchia milanese) che tributa i Coldplay. Ovvero, per farla più semplice, noi risuoniamo i loro pezzi. Pari pari, sì, ma mettendoci anche del nostro. Non siamo, a ogni buon conto, una di quelle tribute band che, salendo sul palco, si trasformano e durante l’esibizione s’agghindano e s’atteggiano come la band ufficiale e li imitano in tutto e per tutto (a tal proposito, ne ho viste di cose irriferibili…). No, noi no. Non ci abbiamo più l’età per farle, ‘ste cose trasformistiche, noi. Noi ci limitiamo, ammesso sia un limite, a risuonare i loro pezzi, i pezzi dei nostri amati Coldplay, al massimo delle nostre possibilità. Cose che invece, l’età e il coraggio di farle (le cose trasformistiche), ce l’hanno avuti i ragazzi dell’altro gruppo, gli US4 – che rifacevano i mitici U2 –, con cui abbiamo diviso il rinomato palco del Rolling Stone.

Preciso e puntualizzo una particolarità, prima che nascano equivoci imbarazzanti. Io col cantante dei Coldplay, il buon Chris Martin, marito dell’attrice Gwyneth Paltrow (un tocco di gossip non guasta mai), non ho moltissimo da spartire. Giusto qualcosa con la sua (a suo modo, inarrivabile) voce, che comunque poi alla fine dei conti è la cosa più importante, per uno che ambisce a cantare come l’originale. Inoltre, con tutto il rispetto per quelli veri e per i replicanti sparsi per il mondo, a me i Coldplay piacciono, sì, ma un po’ di più a me piacciono gli Afterhours. Ma va bene lo stesso, non pretendo l’impossibile io, già c’era poca gente a vederci rifare i Coldplay (era il sabato di Pasqua e l’attenuante è già bell’e che pronta) che sono di Londra, figurarsi a rifare gli Afterhours, che arrivano da Abbiategrasso.

Noi, intesi come Fix You, noi, tra l’altro, siamo un gruppo dall’età media piuttosto alta per essere un gruppo pop rock. Diciamo che gravitiamo intorno ai quaranta, chi più chi meno (io meno, io meno!), con picchi ben al di sopra i cinquanta.

L’altra sera la media era ancora più alta, visto che ci mancava il tastierista, uno dei più giovani. Ci mancava perché era a Cuba con la moglie (e io, nella mia profonda ingenuità, credevo, almeno fino all’altra sera, che a Cuba s’andasse rigorosamente senza, la moglie intendo), così al suo posto ci siamo arrangiati utilizzando delle basi registrate (nessuno se n’è accorto). Ma per non fare la figura di quelli che suonano senza tastiere i pezzi di un gruppo che fa delle tastiere e del pianoforte un punto fondamentale, allora ci abbiamo messo Max, alle tastiere, o meglio, a far finta di suonarle, le tastiere. E lui così, quando non era impegnato con la chitarra acustica (strumento che effettivamente suonava per davvero), si posizionava dietro le tastiere e muoveva le mani a casaccio, in totale libertà e spensieratezza. Tanto i suoni erano già registrati e lui poteva persino permettersi di pensare ad altro, alla sua peri-artrite e alle infiltrazioni di cortisone che aveva cominciato a fare quel pomeriggio, ad esempio. Che Max è uno di quelli che ci fa alzare la media età, questo per dire.

Durante la serata di sabato, sarà che era la notte di Pasqua, sarà che abbiamo calcato il prestigioso palco del Rolling, e chi l’avrebbe mai detto che sarebbe mai potuta realizzarsi una roba del genere, sarà che c’era della magia nell’aria, sarà quel sarà, ma ne sono successe, di cose.

Prima dell’incontro con l’illuminante saggio bevitore, mentre eravamo lì, fuori dal Rolling Stone, a scaricare l’adrenalina, mangiandoci un hot dog in un take away molto simpatico (Dog Out), potete non crederci ma era proprio lui, chi t’abbiamo incontrato, elegante, a braccetto d’una non più giovanissima bionda, chi t’abbiamo incontrato, se non lui, il figurante televisivo ex naufrago, amabilmente ribattezzato er mutanda (Antonio Zechila)? Entrambi svicolati, l’elegante er mutanda e compagna, dopo un nostro fugace richiamo del tipo: “Hey, ma quello è Zechila!”, e lo Zechila stesso, appena sentito pronunciare il suo nome, s’è voltato orgoglioso e curioso, come a dire, ehilà, m’hanno riconosciuto anche stasera…, svicolati entrambi in un portone, un paio di civici prima del Rolling.

Neanche il tempo di mandare giù il boccone, sempre col gustoso hot dog tra i denti, abbiamo altresì assistito a un principio di rissa tra adolescenti irrequieti e forse resi ancora più irrequieti da qualche additivo illecito. La colluttazione è durata poco, ma è stata molto intensa, per dio come se le sono date! A quel punto era davvero troppo, di emozioni ne avevamo ricevute in abbondanza, dunque siamo rientrati al Rolling e ci siamo ascoltati gli US4, la tribute band dei quattro gloriosi irlandesi.

La faccenda curiosa, alla quale ripenso adesso, è che, sempre ragionando in termini d’età, noi (considerando la media anagrafica) siamo molto più vicini alle età degli U2 che non a quelle dei Coldplay. E viceversa, gli US4 sono molto più giovani (ahimè) di noi e molto più in linea con l’età dei Coldplay. Ma loro, gli US4, rifanno gli U2. Che se io penso agli U2, che arrivano dalla mitica Dublino, lo dico per chi non lo sapesse, l’ultima località che mi viene in mente per associazioni d’idee è Biella. E Biella invece m’è venuta in mente per forza, in quanto è la città dalla quale provengono appunto gli US4, ed è per quello che dico Biella. Loro, gli US4, Biella a parte, sono bravi. Giovani, forse ancora un poco acerbi per rifare gli U2, a volte troppo didattici e filologici (filologici lo potrebbe dire un critico musicale de La Repubblica), un po’ troppo presi dalla parte. Come sonorità c’eravamo quasi, come personalità, presenza scenica e corposità complessiva, invece, i quattro ragazzi di Biella devono ancora lavorarci sopra. Ma di tempo ne hanno, sono giovani, loro. E poi, tanto di cappello al cantante che, ammiccamenti, movenze, occhiali da sole e fascette in testa a parte, ha una voce assolutamente valida e molto, parecchio simile a quella dell’originale.

Il nostro concerto, lo voglio dire subito, è andato alla grande. Noi ci siamo esibiti per primi, come ordine d’importanza, anche se replicanti, gli U2 valgono pur sempre di più dei Coldplay e dunque è toccato a noi aprire le danze. Di gente non ce n’era molta, per lo più erano giovani desiderosi di ballare (dunque desiderosi che i due gruppi finissero il prima possibile e che salisse sul palco il DJ). Noi, giovani o meno, abbiamo fatto il nostro. Dodici pezzi, una scaletta serrata, con i cavalli di battaglia concentrati verso la fine, dodici pezzi tirati a tutta, equivalenti a un’ora abbondante di musica. Ce la siamo sfangata alla grande, lo voglio ribadire, ci tengo che si sappia. Che poi, detto tra noi, di scusanti, nel caso non fosse andata com’è andata, di scusanti ne avevamo. Ve le elenco sinteticamente e poi ditemi se non è così.

Del nostro tastierista latitante a Cuba e di Max, imbottito di cortisone e con la peri-artrite già sapete.

Ma poi.

Ferro, il bassista che, per i postumi d’un incidente in moto, era dolorante alle costole e aveva un polso malconcio, semidistrutto (ha dovuto suonare col tutore e ciononostante ha suonato benissimo)
Marcello, uno dei nostri due chitarristi elettrici, che aveva perso (immagino per la tensione), pochi minuti prima di salire sul palco, una lente a contatto (ha suonato benissimo anche lui, seppur fermo, immobile, staticissimo sulle gambe per paura di mettere qualche piede in fallo)
E meno male che Adriano, l’altro dei due chitarristi elettrici, e Lapo, il batterista, non avevano nessun problema, almeno all’apparenza.

Sì, perché anch’io non ero in perfetta forma. Era dal mattino che continuavo a fare avanti e indietro sulla tazza del cesso, in preda a forti dolori di pancia e a scariche incontrollate. Avevo dovuto prendermi una bella pasticca di Dissenten, scusate la pubblicità, di quelle che ti bloccano per settimane il sistema gastrointestinale. E che, in ogni caso, questa è ancora pubblicità me ne rendo conto, aveva funzionato a meraviglia.

Riepilogando, due sani su sei (escludendo dal conteggio il latitante), non è una media altissima. Ebbene, eppure, il concerto è stato uno sballo, dovete credermi. Abbiamo suonato con energia, grinta, precisione, forza, volontà, passione e… e mi fermo qui che non sono un tipo che esagera, io.

Calcare il palco del Rolling Stone, ora posso dirlo, è stato davvero elettrizzante. Io al Rolling c’ero andato giusto a ballare negli anni ottanta e novanta come tutti i giovani milanesi o quasi (almeno una volta nella vita i giovani milanesi ci sono andati) e in un’occasione c’ero andato da spettatore a vedere i Litfiba, ma parlo del millenovecentonovanta, quando c’era ancora Piero Pelù che s’agitava a torso nudo, con gli stivali e i pantaloni di pelle nera. S’agitava, roteava le catene e tutto sudato cantava: Oh, Oh… Louisiana, piove su di noi, le nostre catene…
Secoli fa.

Stavolta invece c’ero lì io, sulle stesse assi del palco calpestate da Pelù e da chissà quante altre rockstar, ero lì che saltavo, cantavo e sudavo (ma non a torso nudo). C’ero proprio io lì sopra, accidenti!
Considerata la portata dell’evento era venuta a vedermi persino la mia fidanzata, solitamente riluttante nel presenziare a questi raduni pop rock. S’era seduta in fondo, laterale, sulle gradinate, semiclandestina, insieme a due nostri cari amici. Lo dico solo perché io, poi, a sorpresa, azzardando parecchio, le ho addirittura dedicato un pezzo alquanto romantico (In My Place). Figurarsi lei, s’è nascosta sotto la borsetta. La mia fidanzata è molto, parecchio timida e poi lei ascolta Madonna.

Mia madre invece, tanto per restare in clima familiare, poche ore prima, parlandole al telefono, ha capito che andavo a vederli, i Rolling Stones, inteso come il gruppo leggendario capitanato da Mick Jagger, e non che andassi a suonarci, al Rolling Stone, inteso come locale storico del rock milanese. Chissà che avrà pensato mia zia, assidua frequentatrice parrocchiale, quando lei, mia madre, sua sorella, gliel’ha detto, quella sera stessa, durante la veglia pasquale. La musica del diavolo il sabato santo, mah!, in che mondo viviamo, già!, non c’è più religione!, ‘sti giovani d’oggi… e via dicendo.

Prima durante e dopo, sia come sia, ci hanno trattato da vere rockstar. Bottigliette d’acqua a volontà, vassoi di focaccia, un camerino dietro al palco tutto per noi e due bagni ad uso esclusivo (piastrellati di rosso, di cui uno con doccia), che se l’avessi saputo prima, mi sarei pure evitato la pasticca di Dissenten. Ingressi omaggio per parenti e/o amici stretti. Il ragazzo organizzatore della serata, Matteo, fin troppo condiscendente, disponibilissimo, prontissimo a darci le necessarie istruzioni. Sempre attento a ogni nostra richiesta. Uniche pecche, le scarsissime, una a testa, tessere free drink (dalla seconda in poi, me le sono dovute pagare io, le birre…).

Poi, finita l’esibizione, l’ho conosciuto meglio, Matteo, l’organizzatore della serata. Matteo è un giovane come ce ne sono pochi, genio acerbo e probabilmente inconsapevole, amante di James Joyce e abilissimo nel calcolare a velocità supersoniche il numero di lettere che compongono una frase (fino a un massimo di settantadue), non necessariamente attinente a Joyce. Per fugare ogni dubbio l’ho messo alla prova e ho iniziato a sparare fuori frasi a casaccio senza senso, a raffica. In effetti era così, o quasi. Certo, i mojito che s’era bevuto non lo aiutavano in precisione e qualche numero gli è scappato via, però nel complesso se l’è cavata egregiamente. Ma lui, non soddisfatto della performance, per rifarsi, ha cominciato a citarmi pezzi interi dell’Ulisse. Addirittura, a quel punto voleva stupirmi ed era diventata una sorta di questione d’onore, s’è messo a recitarmi gli ultimi tre paragrafi di The Dead (l’ultimo racconto di Dubliners) a braccio, in lingua originale. Io ho abbozzato un sorriso, ma dentro di me mi sono sentito un mezzo ignorante. Ho fatto un rapido esame di coscienza e per tirarmi un po’ su, ho riflettuto: il concerto in fondo era andato alla grande e poi, mi sono detto a mezza voce, c’era d’essere contenti, qualcuno lo conosceva davvero, il Joyce!

Sul palco invece, fortunatamente, mi sono sentito a mio agio e non è una di quelle frasi fatte, dette così, tanto per dire. M’agitavo il giusto, senza esagerare, a torso coperto, cercando d’essere concentrato sui pezzi (a mio modesto parere, quelli che ho cantato meglio sono stati: God put a smile in your face, A rush of blood to the head, Talk e Yellow), ma allo stesso tempo provando a lasciarmi andare, a farmi trasportare dalla musica. Che poi credo che sia questo il segreto. Cioè, io con Mick Jagger, con Chris Martin o con Bono non ci ho mai parlato, ma credo che sia questo il segreto. Far fluire la musica, dentro e fuori di te.

Coi testi in inglese (ho bisogno di leggerli, a memoria non li imparerò mai, mi spiace), scritti belli in grande e posizionati sul leggio, a volte mi sono incespicato, ma robe da niente, nel complesso robe piccole di cui mi sono accorto solo io. Al tecnico delle luci avevo chiesto di puntarne almeno una sul leggio, prima di cominciare, che altrimenti col cavolo che riuscivo a leggerle, le parole. Lui me l’ha posizionata immediatamente. Ecco, anche in quel momento mi sono sentito una vera rockstar. Ogni desiderio, un ordine. Ogni richiesta soddisfatta. Che se non ci fosse stata la mia fidanzata, avrei pure chiesto d’avere un paio di ragazze discinte e ben disposte ad attendermi in camerino, alla fine. Solo per vedere l’effetto che faceva averle lì. Disponibili, discinte e ben disposte. Ma forse sarebbe stato troppo, sì.

Noi, in quanto Fix You, prima tribute band della cerchia milanese dedicata ai Coldplay, abbiamo una specie di manager. Ce l’abbiamo da qualche mese a questa parte. E dobbiamo riconoscerglielo, è anche merito suo se siamo arrivati a esibirci sul palco del Rolling. Lui, il nostro manager, è un tipo che ancora non ho ben inquadrato. Cito un episodio, per farmi capire. In quanto manager credo che, oltre a prendersi la percentuale dell’ingaggio, abbia anche il dovere di ascoltare i gruppi che gestisce. Invece lui, non l’ho ancora ben inquadrato ma mi pare un tipo originale, lui invece ha slinguazzato per l’intero nostro concerto con la sua squinzia. Lo so perché li vedevo con la coda dell’occhio, li vedevo darci dentro nel retropalco. Almeno: li ho intravisti per i primi due pezzi, poi ho visto scostarsi il tendone che portava ai camerini e loro che ci si infilavano dentro. A quel punto ho pensato a cantare, che era meglio, per tutti. Salvo poi riaccorgermi di lui alla fine del concerto, quando l’ho visto ricomparire, avvinghiato alla sua squinzia, da dietro il tendone. Nulla da ridire, sia chiaro. Solo che lui, appena siamo scesi dal palco, sudati e ancora adrenalinici, lui ci ha detto, baldanzoso e spavaldo, come, aggiungo io, un buon manager che si rispetti, deve essere:

“Bravi! Avete suonato benissimo! Mi siete davvero piaciuti! Bravi, bravi, bravi!”

Io, che l’avevo visto (prima visto, poi immaginato) impegnato in altre attività, ho sorvolato, gli altri invece erano entusiasti. Lui, il nostro manager che non ho ancora ben inquadrato, a ogni modo ci ha promesso che alla prossima suoneremo all’Alcatraz (n.b. altro locale milanese molto prestigioso), senza peraltro specificare quando, però. Considerato che il precedente concerto l’abbiamo tenuto tre mesi e mezzo fa, non c’è da stare troppo allegri e con le mani in mano. Anzi, converrà tenersi liberi per ferragosto.

La vita da rocker, manager e percentuali a parte, ti riserva lati piacevoli e altri meno. Sogni di rock and roll, direbbe il Ligabue.

Il lato piacevole è senz’ombra di dubbio il momento dell’esibizione. Volendo allargare un po’ il discorso, anche l’immediato dopo non è malaccio, ovvero, quando scendi dal palco e ricevi tutte quelle pacche sulle spalle e quei baci e quei complimenti diffusi e poi anche la birra fresca che ti bevi rilassato e felice soddisfatto. Saremo pure dei replicanti che risuonano pezzi d’altri, ma quando finisci l’esibizione vieni trattato sempre come un vero musicista. E così capita che anche tu ti lasci un po’ andare e ti metti a salutare quelli della security come fossero cari amici e poi fai l’occhiolino ai tecnici del suono, manco fossero conoscenti di vecchia data. Batti il cinque ai primi tizi che ti si fanno incontro. Tutto ok, ragazzi, tutto ok! È la musica baby, è la musica che ci rende tutti fratelli. A meno che tu non ti trovi dentro Music Farm, alle prese con Safina, Pago e Califano. Altro che fratelli, lì dentro solo coltelli…

Ma c’è anche il lato spiacevole. Robe pratiche di pura manovalanza. Sudore e sacrificio, intendo. Caricare la strumentazione, portarla nel luogo del concerto, posizionarla sul palco. E poi. Smontarla, ricaricarla in auto, riportarla in sala prove.

Nota: ognuno si porta le proprie cose, solitamente questa è la regola. Però, essendo noi un gruppo affiatato (la musica fortifica e gli amici si vedono nei momenti di difficoltà), vige un rapporto di mutuo soccorso. Ci si aiuta, insomma. E dunque io, essendo il cantante e avendo come strumentazione solo testi e leggio, roba leggera a confronto delle casse e degli amplificatori, quando posso do una mano. Soprattutto li aiuto dopo, quando mi riesce difficile defilarmi, perché prima, in una maniera o nell’altra, lo confesso, me la sfango sempre.

Inevitabilmente giunge il momento degli addii. La musica è finita, gli amici se ne vanno. È dura, eh sì, la vita del rocker. Salutate le fidanzate, le mogli e gli amici più fedeli, salutato anche Matteo, il giovane genio che sa far di conto e che legge Joyce, abbiamo smontato e caricato tutto sulle auto, come al solito, e infine, un rituale tutto nostro, ci siamo diretti al primo baracchino aperto, fornito di panini e salamelle, con l’intento di chiudere in bellezza la serata, già di per sé magica, meritoria e meritevole di menzione speciale. Ormai s’erano fatte le tre di notte ed era Pasqua a tutti gli effetti.

Zoomata lunga: davanti al furgoncino che vende panini e salamelle, in corso XXII Marzo, angolo Largo Marinai d’Italia, ci siamo noi che ci stiamo pregustando le nostre benemerite salamelle.

Primo piano: un ragazzo con la barba che barcolla e che gira intorno a un tavolino traballante.

Ciak, azione!

È stato in quel momento, l’ho conosciuto lì, dopo aver dato un paio di morsi scarsi al mio panino.

Il saggio bevitore aveva parcheggiato l’auto contromano sulle strisce, mezza storta, due ruote sul marciapiede, a ridosso dell’incrocio con viale Umbria. Diciamocelo, non esattamente una cosa saggissima. E gliel’ho fatto notare, educatamente, senza irritarlo. Lui non s’è irritato, tutt’altro, e m’ha detto che un po’ di ragione ce l’avevo. Poi m’ha preso per un braccio e m’ha trascinato verso la macchina. A metà, mentre stavamo attraversando la strada col rosso, ho persino pensato che la mia carriera di front man dei Fix You, stesse per terminare lì, alle tre di notte di una notte di Pasqua. L’ho pensato a ragion veduta, una Clio azzurra ci ha fatto un pelo, strombazzandoci e mandandoci a quel paese. Io ho guardato il saggio bevitore e lui, ignaro e giocondo, non l’aveva neppure sentito, il vaffanculo volante e lo spostamento d’aria provocato dalla Clio azzurra.

Tutto ciò mentre i miei compagni si mangiavano le salamelle, beati, spensierati e pasquali, felici di aver finalmente allontanato il saggio bevitore, che loro vedevano più come un molestatore notturno.

“Devo farti vedere una cosa”, m’ha invece detto lui, il saggio barbuto, facendomi fare il giro dell’auto. E io l’ho vista subito, senza che lui dovesse fornirmi spiegazioni particolari. La fiancata della sua auto, una Peugeot 105 grigio metallizzata, era praticamente distrutta.
Il saggio bevitore, di fronte alla fiancata praticamente distrutta, ha cominciato a ridere. Io, quando ha preso a ridere, ho provato ad allontanarmi un poco. Mentre ghignava gli veniva da sputare e a me non m’andava di prendere i suoi sputi in faccia. Anche s’erano sputi di un saggio, era pur sempre saliva d’uno sconosciuto. E, sinceramente, non riuscivo a trovare il lato comico della vicenda.
Però ho preso a ridere anch’io, senza motivo, per spirito di fratellanza e per solidarietà, credo. E anche perché adesso i suoi sputi li stavo evitando, ecco.

Di colpo ha smesso, s’è fatto serio, m’ha fissato uno spicchio di orecchio e ha detto: “Dico, hai visto che botta?”

Io certo che l’avevo vista, mica sono accecato. Ma siccome (l’avevo già ampiamente capito) ero al cospetto di un saggio, ho pensato che lui, con quella domanda, volesse chiedermi e farmi prendere coscienza su qualcosa di meno scontato e banale. Una sorta d’illuminazione, insomma.

“L’hai fatto stasera, l’incidente?”, m’è venuto da chiedergli.
“Ma va là…”, m’ha risposto, riprendendo a ghignare.
“E quando, allora?”
“È da due mesi che ho fatto il botto.”
“Ah, e perché non l’aggiusti?”
“Perché l’ho fatto io, l’incidente, dico. Non mi conviene, farebbero pagare tutto a me. E poi…”
“Già, e poi?”
“E poi non è neppure mia, l’auto. È di un mio amico.”

Ed ecco che la saggezza di questo giovane uomo barbuto, barcollante e ubriaco, cominciava a manifestarsi in tutta la sua grandiosità. Non era sua, la Peugeot 105 gravemente lesionata con la fiancata destra praticamente distrutta, non era sua, cazzo! Che gli fregava di sistemarla?

“Me la tengo incidentata, capisci?”

Io capivo eccome, l’auto mica era mia, potevo capire, io. Ma l’amico, mi chiedevo, il suo amico capiva tutto pure lui? Poi il saggio, come niente fosse, ha cambiato argomento e ha preso a parlarmi della sua fidanzata. E, come una madonnina lacrimante, altre stille di saggezza hanno cominciato a fuoriuscirgli: “La mia fidanzata è a casa sua. Almeno, dico, dovrebbe… sai, con le donne non si può mai sapere…”

Sempre più gonfio, quasi saturo di saggezza, s’è anche concesso una svisata musicale che, dal mio personalissimo punto di vista, avrebbe potuto risparmiarsi: “Chi hai detto che suonate voi? I Coldplay? Dico, chi cazzo sono i Coldplay? A me fanno cagare, i Coldplay! Che merdazza suonano i Coldplay? Musica da fighette, immagino… ‘scoltami, è centomila volte meglio il Boss!”

Infine, senza nessuna connessione logica, rimirando la fiancata semi distrutta, ha concluso il suo pensiero, riuscendo finalmente ad accendersi l’ultima Diana blu che gli era rimasta nel pacchetto.

“Al mio amico, quello che m’ha prestato l’auto, dico, io gli ho dato la mia casa, sai? Lui dorme lì. Un baratto, capito? Io tanto, tanto io stanotte dormo qui. Mica sono scemo, io. Dico, mi butto in auto e ma le dormo. Faccio sempre così. Io stasera sono mezzo fuori, dico, io ogni sabato mi sballo di brutto e dopo me la dormo in auto, nel primo posto che capita. Dico, un posto vale l’altro, no?”

In my place, in my place, Were lines that I couldn’t change, I was lost, oh yeah

“Quest’incrocio ad esempio, questo posto va benissimo.”

I was lost, I was lost, Crossed lines I shouldn’t have crossed, I was lost, oh yeah

“Io sono saggio, sì. Dico, mica che prendo l’auto e mi schianto contro il guardrail o contro un tiglio, io. Sono uno saggio, io. Anche da ubriaco, dico, resto saggissimo, io.”

Yeah, how long must you wait for it? Yeah, how long must you pay for it? Yeah, how long must you wait for it?

Come dargli torto. Un saggio bevitore, come dicevo.