NUMERO 9
AGOSTO 99
 

Scrivi all'autore
Scrivi all'autore

MICHELE VITTORI

Ecco un’altra scoperta di origini telematiche. Ho ricevuto questo racconto da Michele quasi un anno fa e mi era piaciuto molto. Poi si è abbattuta su di noi una specie di cospirazione occulta, tale per cui le email non arrivano mai a destinazione e le lettere andavano perdute: una situazione un po’ assurda per due persone che non si conoscono e cercano di farlo. Alla fine ci abbiamo praticamente rinunciato. Però i racconti Michele continua a mandarmeli e io sono ben felice di pubblicare (finalmente) questa ironica meditazione sulle proprie disavventure sentimentali, tutta centrata su un particolare fisico che io francamente sottovalutavo ma che, a tutta evidenza, deve avere le sue belle ragioni.

Subito sotto il pomo d'Adamo

Incavo. Incàvo, ìncavo...insomma quello spaziettino, più o meno accentuato, più o meno profondo, esteso, glabro, che si trova subito sotto il pomo d’Adamo, incipit dello sterno, sorgente immaginaria di simmetrie fisiche, geometrie di busto, linee di spalle. Ecco il mio tallone di Achille, il punto dolente dei miei ultimi otto anni giocati quasi totalmente sul campo degli affari di cuore.
Tre donne differenti, tre storie d’amore diverse, ne hanno fatto - quasi di comune accordo inconscio - la mia carta di identità di uomo, di amante più o meno compiuto, sicuramente provato.
Lo hanno eletto a luogo di energia virile, a valvola di emanazione di personalità; ne hanno fatto tappa obbligata di un percorso sentimentale accidentato, folle, immediato.
Il mio incavo: sorgente di passione e complicità, punto di non ritorno dell’universo-mondo di una coppia di amanti. Questo per loro, le tre donne che ho avuto.
Non ho soldi, non ho cellulare, non ho macchina, non ho un lavoro fisso e serio, non ho bicipiti pronunciati, non ho riscaldamento in casa, non sto a descrivermi fisicamente, ma ho l’incavo. E che incavo.
Insomma, per farla breve, un uomo un incavo, ecco il giusnaturalismo derivato dai miei trascorsi amatori. Ma la questione è stata più complessa e variopinta di quello che si possa credere.

Rossana, 30 anni, una donna ciclone, dove passa lei non cresce più l’erba - ed infatti con lei sono finite le mie acne di diciassettenne intrigante e misterioso, conosciuta un 25 aprile battagliero di fine anni’80, amata perdutamente fin da subito. Una relazione formativa, veramente, cinque anni cinque di Sentimenti e Politica: il personale è politico, l’utero è suo, compagni dai campi e dalle officine, l’autocoscienza come prassi di vita...il tutto originalmente concepito e dialettizzato attraverso il mio incavo. Lui, rivoluzionario indiscusso, filtro di analisi, chiave di lettura della realtà, pre-testo e metafora di relazioni: non avrei mai creduto che un incavo potesse così tanto.
Dopo poco che ci conoscevamo, Rossana, in un momento di intimità, mi disse, con un’uscita un po’ insolita per una donna del suo calibro,: “Il tuo incavo per me è come la tana per il fuggiasco, il covo per il brigante, la contrada per il ribelle, la quiete dopo la tempesta: io vado fuori, per la strada, a combattere, e poi ritorno, mi chiudo qui, nel tuo incavo, e riprendo vita...”. Cosa dire: preludio ad un riflusso in ritardo sugli anni ‘80? Cedimento a cliché maschilisti? Non so, fatto sta che il mio incavo era per Rossana il centro del mondo, lo zenit della prassi rivoluzionaria, e così fu almeno fino a quando Rossana, improvvisamente, se ne partì per il Nicaragua. Forse perché - ligia all’ideale - gli incavi di tutto il mondo si unissero.

Flora, 25 anni, ragazza per bene, acqua e sapone, conosciuta ad un corso di fotografia; con lei due anni scarsi di relazione durante i quali - ricordo bene - il mio incavo divenne oggetto di desideri leggiadri, semplici, istantanei.
“Mi lasci fare il nido nel tuo incavo?”, se ne uscì dolcemente quando le offrii per la prima volta una cenetta in un ristorante indiano a Firenze. Da allora il mio spaziettino così ambito, luce interiore di amateur surreale, diventò il soggetto preferito delle sue fotografie: zoommato, grandangolato, filtrato, sovvrapposto, ingrandito, ingigantito. Ovunque, in giro per casa, negativi, stampe, diapositive, books, flash immortalanti quella regione esotica, quel triangolo di virtuali Bermude, quel nido di Baci Perugina.
E inoltre - ma che dolce era Flora! - disegni, acquarelli, poesie, elegie, persino una piccola scultura in creta, e poi, no, questo da Flora non me lo sarei mai aspettato, il sesso: ebbene sì, pure il sesso tra lei ed il mio incavo. Io rimanevo un po’ in disparte, ammutolito e sorpreso, a volte annoiato, a volte infastidito da quel bagnaticcio proprio sotto la mia gola, altre volte eccitato per le nuove frontiere del godimento appena violate.
Flora una notte di luna piena mi rivelò che le sue ali erano cresciute abbastanza, che erano forti e sicure, e che era giunto il tempo di migrare, di spostare il nido. Aveva conosciuto Betty, ed il suo nido era sicuramente molto più rigoglioso e dolce del mio.

L’ultima donna che ha strapazzato quei tre centimetri quadrati di pelle - sintesi forzata di una intera persona, riassunto di vita “altra” - è stata Rebecca, 22 anni, attrice di teatro, ingaggiata, ricordo, per una pubblicità spagnola di lettiere per gatto durante il suo Erasmus a Madrid, ma “che vuoi, bisogna farsi conoscere...”.
La piccola Rebecca, leggiadra, sensuale, delicata, l’avevo conosciuta durante il mio primo incontro con la pratica Yoga. Dopo pochi giorni eravamo già fidanzati d.o.c., tirocinanti in relazione vitale ed eterna, geometri idealisti specializzati in promesse e verifiche di coppia, sognatori con pallottoliere e calendario di pargoli e capanna.
Rebecca decise - sentì, per la precisione - che la mia energia vitale non sarebbe mai uscita dall’osso della fontanella, ma dall’incavo, al quale iniziò a rivolgersi, a giorni alterni, con nomi di divinità indiane. E allora via a massaggiarmi l’incavo, e ad onorarlo con incensi e petali, oli profumati ed essenze aromatiche.
Ma anche con Rebecca, dopo poco più di un anno, stessa tiritera. In tempi di Nuova Età, come potersi illudere sulla materialità, sulla consistenza, sulla durata lineare di una relazione? Eh caro mio, troppo positivista, scientista, razionalista, antropocentrico, e poi finisci per non pensare positivo! Bye bye Rebecca, missionaria di esperienze esoteriche, ora ti so con un giovane regista, inseguire insieme a lui la linea dell’orizzonte perchè i bisogni dell’oggi sono troppo scontati e volgari...

Così è stato: per tutte le mie donne (le mie storie serie, sic!) il comune denominatore era il mio incavo.
Per loro Lui emanava energia, sensualità, buon odore, calore o frescura a seconda della stagione, suoni ed armonie come una conchiglia di mare. Per tutte e tre era una fonte di vita, una tana, una cuccia, una cassetta di sicurezza dove depositare attimi, paure e coccole, una macchina di sogni, certezze ed equilibri.
Persino il mio abbigliamento doveva adattarsi e finalizzarsi ad una giusta ostentazione e ad una corretta fruizione dell’incavo: mai più maglioni a collo alto, sciarpe, foulard, camicie troppo abbottonate, e giù con faringiti, laringiti, tonsilliti, punture di insetti in moto.
Io non stavo mica troppo bene. A volte l’incavo mi doleva, me lo sentivo scoppiare, allargarsi, tendersi, comprimersi.
Facevo incubi terribili: sognavo orde di baccanti che mi legavano ad un piano di marmo e sacrificavano il mio incavo a Venere, e poi bande di cyber-femmine che mi asportavano l’incavo con una operazione di alta chirurgia e mi trapiantavano un collare a scosse ed elettrostimoli. A volte temevo per una sua incontrollabile antropoformizzazione, che assumesse vita propria, mettesse su gambette e braccine e via da solo verso nuove avventure. Poteva anche capitare che mi sorprendessi allo specchio a parlargli, con tono più o meno sommesso, paternalistico od ammiccante.
Tutte le storie d’amore vissute erano caratterizzate da un movimento duplice e contrario: aumentavano i progetti, crescevano le voglie, si sprecavano i “per sempre”, i “tutto e subito”, ed io, di rimpallo, mi sgonfiavo, mi ammosciavo, apprendista Superman a contatto con la criptonite, claustrofobico e abbrutito, iniziavo a dare segnali preoccupanti di “perdita del me” e sintomi di evidente psicosomatizzazione: vertigini, nausea, astenia, cefalee.
Percepivo il mio incavo in grave pericolo, e questa sensazione aumentava proprio nei momenti di crisi finale della relazione amorosa.
Poi, lentamente, dolcemente, pacatamente, con la fine del fidanzamento, tornava la quiete: una convalescenza interiore che aveva nell’incavo il campanello per immaginari infermieri e per cure meritate.
Eppure, ogni volta, rimaneva forte la sensazione di perdita e di privazione: che qualcosa del mio incavo se ne fosse andato per sempre, che millimetro per millimetro il mio triangolino di ciccia delicata si fosse usurato, sfilacciato, fosse stato irrimediabilmente sacrificato sull’altare della reciproca comprensione, conoscenza, generosità della vita a due.
Oggi guardo al mio passato con sereno distacco ed una buona dose di sarcasmo autocompiacente: io ed il mio incavo siamo ancora insieme, sereni, in una giusta dimensione di gratuita reciprocità ed equilibrata proporzione di forze.
Potrei cercare una donna seria e matura che tratti il mio incavo per quello che è, senza farne un parco naturale protetto, una riserva indiana, o un tempio da neurodeliri adolescenziali.
Ma non ne ho poi così tanta voglia.

 

 
Dicembre 2006

 

è online

Intro

FRANCESCA RAMOS
Domenica

FEDERICO MIOZZI
TEMA : “Racconta la tua settimana bianca”

MICHELE ROSSINI
Dentro una batana bianc’azzurra

GIORGIO FONTANA
In tempo di pace

ALESSIO ARENA
Il Santo


NOTE BIOGRAFICHE

 

SPECIALE
Visitatore