NUMERO 5
MARZO 1998

 

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FRANCE BIANCHI

 

Tempo fa sono andato a trovare mia sorella a Genova con l’intento preciso di frugare nel suo computer e tirare fuori un po’ delle cose che aveva scritto e che teneva nascoste. Fra i diversi brani ho trovato questi tre raccontini risalenti a sei, sette anni fa.
Sono quadretti struggenti, di una malinconia tutta femminile, scritti con un linguaggio a metà strada fra il narrativo e il poetico. Mi ha colpito molto, in particolare, l’uso di alcune immagini ardite, come il rumore d’acqua delle mani o il sangue che annuncia i cambi di stagione
Insomma, con il solito nepotismo, questa volta a France (come ha deciso di firmarsi adesso) dedico ben 7 pagine.
Come direbbe Mario Merola:“e sorelle ‘so pezzi ‘e core”.

 

ALCANTARA-MAR

A volte una sola immagine incide i solchi del ricordo. E stando nello stesso luogo si vede passare la medesima figura, che non è più lì, ma forse un giorno tornerà.
Adesso è altrove. Nel quadro immenso di un caldo pomeriggio, che vive oltre le finestre, sotto i cieli di tutte le stagioni. Io non ho che questa capacità radioattiva di seguire vecchi percorsi, quelli logorati dai troppi ritorni.

Certi giorni ti aspettavo alla stazione di Alcantara-Mar. Mi facevi stare seduta su una panchina a guardare la gente che saliva e scendeva dai treni grigi. E' così che ho imparato ad amarli, e a credere di aver appuntamento con loro, con quell'odore di catrame che sprigionavano ad ogni fermata.
Tu all'ora stabilita non c'eri mai. Io vedevo passare i diretti e i semi-diretti. Avevo imparato a memoria i nomi di tutte le stazioni dal Cais do Sodre a Cascais, e sì che tu salivi ad Oeiras e io potevo benissimo fare a meno di almeno metà di quelle parole. Facevo sempre più del necessario, per te.
Le sillabe di certi luoghi andavo ripetendomele in testa come se fossero versi di una poesia. Evocavano una tristezza esasperante. Io sentivo un rapido gesto del cuore: l'avvio della malinconia, il senso di quei brevi binari.
Cercavo di spiegarti il mio amore per le parole, ci ho provato tante volte, ma tu sembravi più divertito che toccato. Inventavo per te i paragoni più incredibili, li andavo scovando in preda a un disperato desiderio di raggiungerti e di condurti sino a me. Non ce la facevo mai.
In quei momenti avrei voluto essere Alcantara-Mar, dove prima o poi tu arrivavi sempre. E scendevi lì per me.
Ricordo un giorno in cui pioveva e l'attesa si faceva lunga, scandita dal suono della pioggia che cadeva precisa sulla pensilina. Sentivo l'inquietudine che accompagna sempre i cieli grigi: temevo non arrivassi mai.
Invece eri su un treno della tarda sera, hai bussato contro il vetro per attirare la mia attenzione, mi hai fatto segno di salire. Quando sono entrata nel vagone mi sono resa conto di non avere il biglietto. Ti ho guardato, ne hai tirati fuori due dalla tasca dei pantaloni. Chissà perché non so dare voce a quell'istante.
Sento soltanto la pioggia e rivedo la tua mano che mi mostra due biglietti. Credo di avertela baciata, quella mano.
Con un rumore d'acqua l'ho portata sino alle mie labbra, l'ho accostata piano e l'ho solcata lentamente. Sapevo che lo avresti definito un gesto sconsiderato.
Io lo facevo perché tu in quel momento non eri nient'altro, per me. Non avevi più occhi, né sorriso, né vestiti da indossare. Non eri che quella mano, e il nome che io stavo per darle.

(1990)

FRUTTA

Che questa stagione muore lo capisco dal sangue, dal lento passaggio dei globuli rossi, dal flusso ostinato ed immenso di questo breve fiume che chissà da dove viene e dove va. Le 9 di sera sono un orario impreciso. Ho il dovere di alzarmi e cercare qualcosa da fare.
La cena è già stata consumata, il dolce non ce l'ho, il caffè se lo bevo non dormo.
Telefono a qualcuno.
La decisione è presa. Tiro su la cornetta e la vorrei vedere viola, lei se ne sta in un anonimo bianco. E poi che numero?
Quale codice di cifre? Per arrivare a quale volto?
Cose da dire. Chiudo gli occhi a pensare. A pensare che giorno ho vissuto. L'aggettivo è Bello. Altri strascichi grammaticali non me ne vengono. Non un punto esclamativo, no. Punto. E se bevessi un tè?
Ma no, che poi il sonno non viene. Punto esclamativo.
Avrei voglia di raccontare una sola cosa. Piccina e silente, così forse la dico a me sola. Ricevitore e ricevente. Ho avuto la sensazione struggente di un'attesa. Un'attesa che doveva venire ma non è venuta. Pazienza. Ci sarà se la vorrò forte, nel futuro. E' da ieri che la provo. Sì, da ieri, se proprio devo dire la verità. Tornavo dalla città. Scendevo dall'autobus. La strada era quiete e prospettive lontane. Era il tramonto, anche gli alberi avevano quella luce raggiante, epifanica, che hanno prima di scolorare e morire nel buio invadente. Ero sola. Avevo una grande borsa a ingombrarmi le mani.
Davanti a quel paesaggio, all'insieme del verde e del ritmo concentrico dei miei respiri, ho capito che qualcuno sarebbe stato lì in attesa. Di me. A prendermi la borsa ingombrante, a darmi l'abbraccio del ritorno, a camminare con me per la via. E poi dove? A casa.
Qui, così. Non so.
Se suona il telefono forse non rispondo neppure. Ho voglia di pensare ancora. C'è un silenzio astratto. Quasi non mi dispiace più neanche per il dolce.
E oggi ancora.
Oggi ancora quella sensazione. Forse più forte, più serrata. Ero in città, ed era sempre tardo pomeriggio. Camminavo verso il parco. La via era particolarmente carina, con un negozio di frutta, e io li adoro i negozi di frutta. Hanno la frutta tutta fuori e tutta colorata.
Punto esclamativo.
Davanti a me c'erano i grandi alberi del parco. Platani, forse, non saprei. Erano bagnati dal sole, e il cielo in lontananza era un po' scuro, ma appena appena. Per uscir furoi dalla via c'era una volta straordinaria. Medievale, color terra.
Così ho pianto. Ecco, camminavo e avevo gli occhi lucidi. Le lacrime non cadevano ma erano lì lo stesso. Qualcuno mi guardava, dovevo avere l'aria afflitta. Però altera. Avevo un certo orgoglio fra le dita e forse il senso di una sofferenza atipica. Regale. Mi struggevo.
Io lo sento che la stagione muore. Mi muovo ma è come se restassi ferma. Apro gli occhi?
Ma sì, li apro.

(1990)

Tinsel town in the rain

Voltandosi, sperava semplicemente di non vederla.
In fondo, la sua figura poteva confondersi con quella di qualche altra donna che a quell'ora percorreva il ponte in direzione opposta. Invece, a dispetto della confusione, della gente (donne soprattutto, gli pareva) che camminava lungo quel breve percorso sopra l'acqua, riusciva ancora perfettamente a scorgerla.
Il suo abito colore della cannella, le sue braccia lunghe, un po' scarne, il suo modo di inclinare la testa quando qualcuno le passava accanto, tutto questo stava a significare che si trattava realmente di lei. Anche chiudendo gli occhi, le cose non sarebbero cambiate.
Una volta scomparsa quella figura (probabilmente aveva imboccato Crescent Street e avrebbe preso l'autobus per tornare a casa), si era sentito incredibilmente sollevato. Poteva osservare le persone andare e venire sul ponte senza provare niente di speciale. Era molto lontano dai loro passi, dai loro volti, era indifferente a qualsiasi profilo, alle frasi che captava ogni tanto, per caso. Strano a dirsi, l'unica cosa che gli saltava all'occhio era il loro modo di tenere l'ombrello. Alcuni lo tenevano dritto impugnandolo dall'alto, altri lo usavano come bastone, altri ancora avevano l'aria di volersene disfare al più presto.

Aveva piovuto sino ad un'ora prima.
Forse se avesse continuato a piovere non sarebbe accaduto. Lui aveva una fede tutta particolare nei fenomeni atmosferici, perciò, mentre camminava svelto con gli occhi fissi sull'asfalto ancora bagnato, diceva a se stesso che sì, certamente non sarebbe accaduto.
Se non avesse smesso di piovere, lei non avrebbe mai voluto uscire da quella tavola calda e fare una passeggiata lungo i ponti (si rivedeva compiere il gesto assurdo di tenerle la mano, di sorriderle quando i loro sguardi si incrociavano), lei non avrebbe mai detto... oltre, non ci voleva andare. Non ci riusciva.
Si sentiva la lingua terribilmente secca, priva di saliva, non diceva una parola da almeno tre quarti d'ora e chi lo sa, dopotutto poteva anche darsi che non avrebbe detto più niente per il resto dei suoi giorni. Immaginava il titolo del trafiletto in sesta pagina sul Glaswegian: "Giovane perde l'uso della parola dopo essere stato abbandonato dalla donna che amava".
Un po' patetico, certo, ma poteva anche funzionare. Lei avrebbe letto la notizia, si sarebbe resa conto di amarlo ancora, più che mai, e sarebbe andata a casa sua, bussando piano alla porta, sbirciando poi dalla finestrella della cucina, come faceva sempre. Ricordava il suo visino spuntare all'improvviso nelle domeniche mattina d'inverno, il profumo dolcissimo che lo investiva trovandosela davanti... no, non avrebbe mai funzionato.
E poi, ordinando una birra nel primo pub che aveva incontrato, si era accorto che la storia del mutismo non aveva molto senso, dopo tutto.

Non la stava bevendo affatto, quella birra. Non aveva voglia di bere e neanche di stare in un luogo chiuso, pieno di fumo, di voci, del rumore di boccali appoggiati con forza sui tavolini. Era uscito e aveva fermato un taxi.
Mentre percorreva le strade in salita, con il loro centro di luce laggiù in fondo, che resisteva sino a quando la notte non se lo portava via, molto, molto tardi, lui pensava a quanto il dolore premesse sul cuore, dando la sensazione di un caldo che si spandesse nel corpo.
Ora lui era così, con quel calore silenzioso a percorrerlo, a muovergli le mani, a farlo scendere dalla macchina e a metterlo di fronte alla scalinata di Park Terrace, al panorama di una città che sale, che fa sentire sospesi.
Era esattamente ciò che stava cercando: una sospensione (del tempo e del solco che le parole sapevano creare), per questo aveva scelto il luogo più alto, ed ora osservava il profilo oscuro delle gru, in lontananza, le cupole dell'università, le cime degli alberi sottostanti.
Il caldo aveva raggiunto i polsi e le tempie.
Non riusciva più a sostenere quella vista, come se sapesse di non poter aspirare, per il momento, a qualcosa che fluttuasse, leggero e inoffensivo. Si era voltato verso le case d'arenaria, che avevano le basi sullo stesso suolo su cui poggiavano i suoi piedi. Le sentiva più vicine, più capaci, con i loro cartelli VENDESI o AFFITTASI piantati fuori e quell'aria di assenza al loro interno, di percepire meglio i suoi pensieri, la piega che la sua vita stava prendendo quella sera.
La cosa più triste, ripeteva a se stesso, è che bisognerà soffrire.

Aveva ricominciato a piovere: una pioggia insistente e rumorosa che non lasciava alcuna possibilità di scampo. Prima di mettersi a correre giù per la scalinata, aveva dato un'occhiata veloce ai passanti che si affrettavano lungo la strada.
Strano, aveva pensato, come sia identico il modo che ha la gente di tenere l'ombrello quando piove.

(1991)

 
Dicembre 2006

 

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Intro

FRANCESCA RAMOS
Domenica

FEDERICO MIOZZI
TEMA : “Racconta la tua settimana bianca”

MICHELE ROSSINI
Dentro una batana bianc’azzurra

GIORGIO FONTANA
In tempo di pace

ALESSIO ARENA
Il Santo


NOTE BIOGRAFICHE

 

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