Simone Tempia, Finale di serie

Ambientazione: Bergamo

Ho conosciuto Simone giovanissimo, in veste di stagista, nella redazione di “Dispenser”, il programma quotidiano di Radio Due Rai di cui ero uno degli autori. Da allora siamo sempre rimasti in contatto e ho seguito da lontano le sue mosse. Nel frattempo lui non solo si è affrancato come autore, collaborando con diverse testate, ma è stato in grado di inventare il personaggio del maggiordomo immaginario Lloyd che l’ha reso prima una star del web poi uno scrittore di best-seller per Rizzoli. Per ‘tina ha scritto questo racconto inedito dalla struttura originale, un ritratto corale giocato sul contrasto fra la vitalità e il silenzio, che forse sorprenderà i suoi lettori abituali perché ne svela il suo lato meno ironico ma più profondo e maturo.

Simone Tempia, Finale di serie

 La vita è quella cosa che ci accade quando gli altri ci ricordano che ne abbiamo una

Se foste dall’altro capo del telefono potreste non accorgervene neanche. Un attimo prima c’è la voce di un uomo di più di trent’anni di nome Marco che ostenta una sicurezza imparata nella frequentazione ossessiva di persone ritenute migliori di sé. L’attimo dopo c’è un silenzio troppo lungo di un paio di secondi. Se foste dall’altro capo del telefono allora provereste a correre ai ripari riempiendo il prima possibile quell’intercapedine d’incertezza con la vostra voce. Tra le tante cose che potreste dire, probabilmente ci sarebbe anche un banale “Scusa, ti ho perso”.

Non avete davvero idea di quanto ciò potrebbe essere vero. Perché Marco non è più lì con voi. E non sa nemmeno lui dove è finito.

Se foste dall’altro capo del telefono potreste non accorgervi del prodigio che sta avvenendo nella stanza, sotto gli occhi di una donna di quasi trent’anni di nome Laura appena emersa dal bagno della casa dove abita con l’uomo di più di trent’anni di nome Marco. Perché sotto lo sguardo di quella donna, l’uomo sta ringiovanendo. Un prodigio che si manifesta nella perdita di un paio di centimetri d’altezza del ragazzo con più di trent’anni e poi nella perdita dell’eloquio del bambino con più di trent’anni fino all’incapacità di stare in piedi dell’infante con più di trent’anni.

Se foste all’altro capo del telefono a questo punto vi accorgereste comunque e inequivocabilmente che c’è qualcosa che non va ma sarebbe troppo tardi perché dopo un “Scusa, ti richiamo” voi non sareste più dall’altro capo del telefono.

Quindi non sentireste la donna dire “Va beh, vado al lavoro” lasciando quel che resta dell’uomo a riflettere su quel che resta della sua vita dopo le parole “Sono incinta”. Se la giovane donna di nome Laura rientrasse di lì a un paio di ore, prendendosi un permesso dal lavoro per tornare prima, lo troverebbe ancora in piedi con il telefono in mano. Ma Laura non torna mai prima. Semmai sempre un po’ dopo.

Silenzio intorno a Marco

 

La distanza che separa la città del nord Italia in cui vive Pietro dall’Oceano di fronte al quale vorrebbe vivere è misurabile in otto righe, tante quante quelle di un annuncio di lavoro rinvenuto su internet per fortuna o per errore. A distinguere l’una dall’altro sono semplicemente i timori che annunciano la prima o i rimorsi che seguono il secondo. Una distanza che Pietro percorre rapidamente, registrando in un decimo di secondo il nome dell’azienda, scartando rapidamente a destra e a sinistra lungo le mansioni previste, piegandosi sulle gambe per assumere una posizione tra il fetale e l’aerodinamico e giungere con il massimo della spinta alla sezione “Capacità richieste”. Indugiando infine quel tanto che basta per riprendere fiato ed espirare d’improvviso al fine di sostenere l’ultimo vitale sforzo, perché non è mai il respiro prima del via quello che rende campioni, ma quello prima del traguardo. Condurre una gara perfetta non vuol dire avere anche il coraggio di vincerla. Una pressione del dito, una semplice pressione del dito su un’icona apparsa sullo schermo di un laptop prodotto in serie e personalizzato solamente dalla una patina di untume animale che si accumula, inevitabilmente insieme a capelli e pezzetti di unghie masticate, tra le lettere “g” e “h” della tastiera. Una semplice banalissima icona disegnata senza sapere cosa avrebbe significato nella vita delle persone che, ad essa, avrebbero affidato speranze. Paure. Desideri. Beata inconsapevolezza dei grafici dei siti internet che non si interrogano sull’importanza che una manciata di pixel potrebbe giocare nella vita degli uomini. E dire che nelle Chiese, davanti alle statue di Santi e Madonne, due candele e un paio di stucchi li si mettevano sempre. L’aria è ancora scossa dalla vibrazione di una notifica del cellulare o forse dal riverbero di ciò che portava con sé. “Sono padre” si legge sullo schermo del telefono che di lì a poco si oscurerà. Pietro prende fiato. Respira due volte e poi preme sull’icona “Invia candidatura”. Da quel momento in poi si sforzerà di non pensare a ciò che ha fatto.

Silenzio intorno a Pietro

 

Incinta. Prima decise di dirlo solo ai genitori. Ai suoi e a quelli di Marco. Magari insieme. Poi prima agli amici più cari e dopo ai genitori. Poi di scegliere una persona a testa, una per lei e una per Marco, a cui dirlo subito, per scaricarsi la coscienza, e poi di dirlo solo dopo ai genitori. Passati i canonici tre mesi agli amici e ai parenti. Poi solo ai parenti ma dopo i tre mesi. Poi ai genitori subito, a una persona a testa dopo qualche giorno, ai parenti allo scoccare del terzo mese e poi di fare una festa appena arrivata la primavera per dirlo a tutti gli altri. Decise di evitare accuratamente di parlarne nei social network, decise di non dirlo per telefono, decise di non comunicarlo in maniera scherzosa, decise di tenerlo segreto il più a lungo possibile, decise che prima dovevano essere fatti tutti gli esami del caso, decise che la quinta settimana poteva andare bene, decise che forse era troppo presto, o forse troppo tardi, decise che non era il caso di dirlo ai colleghi ma che ai datori di lavoro era giusto dirlo ma solo dopo averlo detto agli amici e ai genitori, decise che non dovevano prenderla troppo sul serio, decise che alla fine la loro vita non sarebbe cambiata più di tanto, decise che dovevano fare prima l’albero di Natale. Decise dove andare a Capodanno. Decise che forse a Capodanno avrebbero potuto dirlo a qualcuno. Decise di invitare gli amici più cari a Capodanno. Alla fine tutti avevano già preso impegni per il 31. Alla fine, ma proprio alla fine, non disse nulla ma tutti lo seppero da qualcun altro.

Silenzio intorno a Laura

 

I pensieri si accumulano sul cucchiaio vuoto insieme al riflesso del suo volto. Si vede magra e sfinata dalla superficie concava, il mento allungato, gli occhi molto più vicini alla fronte. L’immagine che la posata le rimanda non è sgradevole per quanto deformata. È una sensazione piacevole, che ha sostituito l’inquietudine di quando Laura l’ha invitata per pranzo nel loro solito ristorantino del venerdì. Perché non è giovedì ma venerdì. Michela aveva già pensato a qualcosa di drammatico ma che drammatico non è stato. Forse. No, non è stato. È solo una grande gioia. I pensieri si accumulano sul cucchiaio vuoto in attesa che arrivino le linguine al pesto di mare. È solo una grandissima gioia piena di battiti di mani convulsi, di “che bello”, di “ma dai”, di “da quanto lo sapete”, di “lui come l’ha presa”, di “come gliel’hai detto”, di “che gioia”.  Solo una grande gioia. I pensieri si accumulano sul cucchiaio vuoto mentre sono finiti i rossori accennati sulle guance sostituiti da una più cospicua vasodilatazione frutto di un bicchiere di vino bianco e poi di un altro ordinato subito, adesso, immediatamente, cameriere dobbiamo assolutamente festeggiare lasci pure la bottiglia. Sono finiti e sono rimasti solamente degli interrogativi morbidi, densi e appiccicosi come la pelle del pesce bollito. Sul fondo di un cucchiaio vuoto. Un tempo c’erano persone, ora solo riflessi. Una certa qual complicità tra le due donne, viva fino a quel momento, inizia a spegnersi. Nel vuoto di un istante Michela dice: “Secondo te troverò mai un uomo decente?”. Lo chiede a se stessa nella speranza che Laura, davanti a lei, non le risponda. Nella speranza che sia il suo riflesso a darle una risposta. Purtroppo però Laura risponde.

Silenzio intorno a Michela.

 

 

Ma quindi? Quindi cosa? Ma quindi vai? Le parole si susseguono velocemente sulla tastiera dei laptop di Pietro e Marco intervallate dai suoni di notifica che rendono la comunicazione tra esseri umani una grande partita alla slot machine in cui, se vinci, hai ottenuto una risposta. E se perdi ne hai ottenute quattro.

Eh, ho ancora da vedere… Vedere cosa? Beh, per ora ho fatto solo un colloquio. Che fortuna questa interazione uomo-macchina-uomo, che dice meno di quello che si vuole dire ma soprattutto mostra meno di quello che si può mostrare. Tutto straordinariamente asettico e privo di personalità con risposte il cui reale significato è deciso dall’interlocutore sull’insindacabile base del suo umore.  Nulla è più preciso nel rivelare la considerazione che una persona ha di te quanto la frequenza con cui mal interpreta il tono di un messaggio scritto.

Ma hai scritto su Facebook che vai. Sì beh, per una volta non sono stato scaramantico. Ma perché te ne vai? Per l’Oceano. Che straordinaria consolazione questo ticchettare di tasti che mastica le parole, che si beve le intenzioni e che ci consegna solamente elaborati gastrici di conversazione, in cui i tempi morti possono essere riempiti da altre conversazioni parallele così che non ci sia mai un attimo di tregua comunicativa. Un fuoco di fila di parole a erigere muri e muri e muri di messaggi tutti consolatoriamente di servizio.

E dove andresti? Tokyo. Viaggio lungo. Eh, sì. Ma non c’è l’Oceano a Tokyo. Lì vicino c’è. Sì ma che Oceano triste a Tokyo. Beata consolazione di giudicare gli Oceani per non dover raccontare dei laghetti di provincia ormai chiusi tra le loro montagne, impossibilitati a giungere al mare. Destinati a vivere dell’apprezzamento di pochi.

Quando dovresti partire? È quello il problema. Il problema? Parto fra due settimane. Due settimane? Dieci giorni, sempre se mi prendono. E quando sai se ti prendono? Domani. Domani? Domani, sì, maledetti. Ma ce la fai con il trasloco? Spero di farcela. E per il cane? Spero me lo tengano i miei. E per la casa? Spero me la trovino quelli per cui andrò a lavorare, dovrebbero aiutarmi. E per i visti? Spero di non avere problemi. Molte domande, nessun dubbio, solo tante speranze. E quando qualcuno è così pieno di speranze è difficile trattenerlo. Al contrario, se non lo si lascia andare c’è il rischio di venir trascinati con lui nel cielo del possibile e del probabile, a guardar i nostri sacrifici diventare piccoli piccoli man mano che ci allontaniamo, per poi ritornare violentemente con i piedi per terra sbriciolandoci dal basso verso l’alto. Questo è quello che pensa Marco. Questo è quello che non vuole pensare Pietro.

E che lavoro andresti a fare? Un bel lavoro, completamente diverso da quello che faccio ora. E sei contento? Certo. Una bella sfida. Una bella sfida, davvero. Beh, che si dice in questi casi? Non so.

Rimani, vorrebbe dire Marco a Pietro con cui ha un’amicizia che, nata da solo due anni, è così bella, piena e fresca di cose ancora da dirsi, di confessioni da farsi, di sciocchezze da non dover giustificare, di malintesi da scoprire, da favori da rinfacciarsi, di cene di soli maschi, di Chianti acidi del Conad con cui riempire i bicchieri e di cose inutili con cui riempire le serate. Prima che qualcuno altro si affacci nelle loro vite mostrando quanto poco hanno ancora da dirsi.

Hai bisogno di una mano per il trasloco? No tranquillo, ho poca roba. Capisco. Però ci vediamo per una cena prima della partenza, vero? Non so, non amo queste cose. Ma dai! Comunque mi lasci qua solo? Non sei solo, c’è Laura. È diverso. Silenzio intorno a Marco

E poi stai per avere un figlio! Silenzio intorno a Pietro.

Marco vorrebbe specificare qualcosa ma sarebbe sconveniente.

Silenzio intorno a Marco e Pietro.

 

“Ma parlami un po’ di te…”

Facile, caro mio. Facile lasciare che il ghiaccio si sciolga nel mio bicchiere divenendo solo sgradevole condensa che costringe le persone a prendere uno di quei tovagliolini fatti plastica cerata che finge solo si essere carta e che è solo per fare trucioli da lasciare sul tavolo quando si è troppo nervosi o la conversazione langue. Facile riempire le insicurezze con la ripetizione ossessionante dell’io dando un quadro completo del io-sono, del io-faccio, del io-preferisco, del io-lavoro, del io-amo, del io-odio condendo tutto con una raffica di “nel senso che” ogni qual volta vedi alzarsi un po’ troppo un sopracciglio, o osservi tamburellare le dita sul tavolo. Facile dopo questo fuoco bombardamento egotico che costringe le persone scavare una trincea nei propri pensieri per rifugiarvisi dentro. Facile provare a stanarlo con una domanda così diretta che sembra uscita dal manuale dell’uomo che vuole far sentire importante una donna.

“Non so, dimmi cosa fai?”

“Ho studiato psicologia ma lavoro per mio padre”

“E tuo padre fa?”

“Concimi chimici”

Difficile, caro mio. Difficile che tutto abbia una causa e un effetto in questo mondo, specie quando ci stanno di mezzo delle scelte che non hanno quasi mai senso se lette alla luce del passato di una persona. È così consolante pensare che se una farfalla sbatte le ali in Brasile un tornado si sviluppa in Texas. È molto più difficile accettare che se una persona passa trenta giorni a privarsi dei carboidrati quello che dice trentuno si beve una bottiglia di prosecco da sola. Evitando però di mangiarci insieme dei taralli ma pensando che il giorno dopo si comprerà un abito blu anche se non hai mai avuto niente di blu nell’armadio e a dirla tutta il blu non le è mai piaciuto. Non è l’effetto farfalla, è l’effetto moscone. Hai mai provato ad aprire una finestra per far volare via un moscone? Hai mai notato che il moscone continua a sbattere contro il vetro anziché uscire nonostante l’aria fresca, i colori, gli odori gli comunicano qual è la via corretta per l’esterno?

E invece continua a sbattere. E a sbattere. E a sbattere. Poi si ferma.

“Interessante”
Per poi tornare a sbattere, sbattere, sbattere incessantemente. Per cercare di uscire, e più c’è qualcosa che lo minaccia, come un giornale che lo spinge verso l’esterno e che prima o poi lo schiaccerà per estenuazione e più lui sbatte. Sbatte. Sbatte.

Questo per dire che nemmeno so perché ho accettato di fare questo appuntamento al buio. Se non per il fatto che Marco e Laura me l’hanno proposto. Me ne hanno proposti a decine. Sempre rifiutati. Perché non è facile per quanto non sembri difficile. E perché il moscone, io, non lo sono. “Non credo”
“Cosa?”
“Non credo che sia interessante”

Mi sono anche scordata il tuo nome. Dovrò inventarmi qualcosa prima di salutarci.

Però dovrebbero smetterla Laura e Marco… Forse per un po’ è meglio se non ci vediamo. Meglio così.

Silenzio intorno a Michela.

 

A un certo punto di questa storia c’è anche un morto. Ma non ne avete mai sentito parlare prima in queste righe.  Marco guarda la pancia di Laura e nella sua mente balena un pensiero scaramantico tutto attorcigliato intorno al tema degli “equilibri dell’universo”. Pietro è già sull’aereo di Tokyo ma ha mandato le condoglianze alla famiglia. Michela è arrivata in ritardo ed è in piedi in fondo alla Chiesa con le braccia conserte al petto. Al funerale nessuno piange. Non per cattiveria ma perché ci sono anche funerali in cui la gente non piange.

Silenzio intorno a Lorenzo.

 

 

L’estate scorsa eravamo. E lo eravamo a volume alto. Si facevano grigliate che non avevano nulla di carino, nulla di romantico, non erano le cenette finto-stellate fatte da Pietro, non erano i film da Marco e Laura, non era la birra sempre nello stesso posto, sempre la stessa pizza, solitamente sempre ogni quindici giorni con Lorenzo, non erano le chiacchiere da Michela con il divano, il puff, il Porto, il passami l’autan, la veranda, il sole. C’è dell’acqua? Sì è in frigo.

L’estate scorsa eravamo. E lo eravamo ancora per un po’, forse, sapendo che non lo saremmo stati più. Eravamo in quel modo in cui sono gli animali prima del letargo, gonfi di tutto, pieni fino a scoppiare di angosce, paure e terribili presagi che cercavamo di cacciare via tracimandoci dentro quantità di felicità fatta di discomusic nostalgica, di progetti senza senso, di licealismi fuori tempo massimo, di nomignoli buffi incapaci di rimanerci attaccati addosso per più di una settimana. L’estate scorsa eravamo. Rumorosi.

Silenzio intorno a tutti.