Riccardo D’Aquila, Termini e condizioni

Ogni tanto succede. Arrivano a ’tina prove di autori che dichiarano di essere al loro primo tentativo e il racconto che inviano è già perfetto, come se fosse frutto di una lunga esperienza. Leggendo “Termini e condizioni” è evidente l’influenza della narrativa nordamericana di cui D’Aquila è un avido lettore: i luoghi desolati di provincia, gli outsider con il destino già segnato, le piccole epifanie nascoste nei particolari (come un biglietto che spunta da una giacca), i dialoghi minimalisti. Se avessi trovato questo testo in un’antologia di scrittori statunitensi non ci avrei trovato nulla da eccepire. E invece, fortuna vuole, me lo sono trovato nella casella mail della rivistina.

Riccardo D’Aquila, Termini e condizioni

La ragazzina entrò nel diner e nessuno le rivolse lo sguardo.

Capì che sarebbe stato difficile, allora, trovarlo in mezzo a tutta quella gente. A dire il vero le sembrava una stronzata già prima, non appena le avevano detto che avrebbe incontrato Mr. L in quel posto, alle undici, quando sarebbe stato pieno di persone che si accontentavano di una cena mediocre o che ordinavano caffè d’asporto per il turno di notte. Ma nessuno le aveva risposto, anche se aveva avanzato qualche dubbio. Si faceva quello che dicevano loro, era sempre stato così.

Rassegnata, con le mani nelle tasche del giubbino di jeans, avanzò tra i tavoli messi lungo le grandi vetrate che riflettevano i tubi neon azzurri e viola. Tutti sembravano alieni venuti da lontano e le patatine nei piatti assomigliavano a pongo colorato tagliato a pezzi tutti uguali. Li guardava con la coda dell’occhio, procedendo a passi lenti e decisi. Poi lo trovò.

Mr. L era solo, nell’ultima poltrona in fondo. Le avevano fatto vedere una sua foto, ma lui non avrebbe avuto nessuna idea di chi fosse stata lei, fino a quando non si sarebbe seduta al suo tavolo. Stava bevendo una birra quando lei gli si piantò davanti.

Si guardarono. Lui, da sopra il bicchiere, con le sopracciglia alzate, voltò leggermente la testa. E lei, con la faccia di chi è in ritardo di una mezz’ora, allargò le braccia con le mani ancora in tasca, mostrando il maglione rosso.

«C’è qualche…?» disse lui.

«Sei Mr. L?» chiese lei, interrompendolo.

L’uomo posò il bicchiere sul tavolo e avvicinò a sé il piatto con l’hamburger e le patatine. Annuì.

La ragazzina poggiò le mani sul tavolo e strusciò sulla poltrona color pelle, in modo da averlo di fronte.

Piombò di nuovo il silenzio, fatto dal solito rumoroso brusio di tutti i diner in cui entrambi erano stati.

Mr. L era esattamente come nella foto. Forse un po’ più trasandato. La barba brizzolata era vecchia di qualche giorno e le occhiaie, dietro gli occhiali dalla montatura scura, sembravano fatte di pongo, come le patatine. Doveva avere qualcosa come quarantacinque anni o forse di più. Era molto preoccupato. A lei sembrò normale.

«Quindi è te che hanno…» provò a dire Mr. L.

«Sì.» lo interruppe lei, di nuovo.

Mr. L. si passò una mano fra i capelli, anche quelli brizzolati, e fece un gran sorso di birra.

«C’è qualche problema?» chiese lei.

«No, è solo che…»

«Non vado bene?»

L’uomo prese di nuovo il bicchiere, senza alzarlo, e la fissò. Lei avvertì i suoi occhi addosso come se fossero stati capaci di toccarla. Li sentì sfiorarle il mento, il labbro inferiore, la punta del naso e le orecchie, che spuntavano dai lisci capelli biondi, tagliati corti appena sotto il collo. Se li spostò davanti al viso, con un gesto quasi involontario.

«Quanti anni hai?» le chiese.

«Tredici.» disse.

Mr. L si posò una mano sulla fronte.

«Tredici.» ripeté lui, guardando verso il bancone.

La ragazza incrociò le gambe e, col gomito sul tavolo, affondò il mento nella mano sinistra. Dietro la vetrata, il parcheggio era pieno di macchine. Solo alcune sfuggivano all’azzurro e al viola.

«Come ti chiami?» le chiese.

Lei lo guardò, sempre col mento sulla mano.

«Mercedes.»

«È un bel nome.»

«Solo se sei una macchina.»

Mr. L sorrise.

«E sei di qui?» le chiese.

«No.»

«Ah, no?»

«Non ti interessa di dove sono.»

Mercedes vide il sorriso sparirgli dalla faccia.

«Ti chiedo scusa.» disse lui.

«Non devi chiedermi scusa.»

«Invece sì.»

«Invece no.»

Una cameriera passò accanto al loro tavolo e si fermò. Posò una tazza davanti a Mercedes. I capelli tinti le uscivano dal cappellino e le rughe, tese in un sorriso forzato, le scavavano la faccia.

«Gradisci del caffè? Qualcosa da mangiare?» le chiese.

«Stiamo per andare via.» disse Mercedes.

«Sei sicura, piccola? Abbiamo la torta.»

«Sono a posto.»

«E il tuo papà?» fece ancora la cameriera «Papà, non compri una bella fetta di torta a questa bellissima ragazzina?»

Mr. L guardò Mercedes con la coda dell’occhio.

«Stiamo per andare via.» ripeté, più garbato.

La cameriera annuì e li lasciò di nuovo soli.

«Non ti piacciono le torte?» chiese lui, sorridendo.

Mercedes alzò la testa e rimise le mani in tasca.

«Senti, ci hai ripensato?» disse.

«No. È che volevo…»

«Non dobbiamo conoscerci, okay?»

«Lo so.»

«Se ci hai ripensato, le sai le condizioni.»

«Sì.»

«Ci hai già pagato. Se vuoi che me ne vado, me ne vado.»

«Lo so.»

«Non ti succede niente.»

«Lo so.»

«Allora che ci facciamo ancora qua?»

Mr. L mangiò una patatina.

«Questo è il mio posto preferito.» rispose.

Mercedes lo guardava fisso negli occhi.

«Vengo qua almeno due volte a settimana,» continuò Mr. L «dopo il lavoro. Prendo quasi sempre le stesse cose. La birra è meno annacquata che negli altri posti della zona, si trova sempre parcheggio e le patatine sono semplicemente le più buone che abbia mai mangiato. Quando vengo qua… non lo so. Tutti abbiamo un posto che ci piace. A me piace questo. In realtà, sono tutti gli altri che non mi piacciono.»

Silenzio.

«Credevo che alla tua età uno imparava a farsi piacere tutti i posti.» disse Mercedes.

«E perché?»

«Non lo so. Lo penso e basta.»

L’uomo mangiò un’altra patatina, gomiti sul tavolo.

«A te che posto piace?»

Mercedes lo fissò di nuovo.

«Se non vuoi dirmelo, non fa niente.» sussurrò lui.

Lei si grattò una guancia in modo tutt’altro che femminile. Alla fine lo accontentò e gli rispose, molto annoiata.

«I taxi.» gli disse.

«Cioè?»

«Mi piacciono i taxi.»

«I taxi non sono un posto.»

«E chi l’ha detto?»

«Io intendevo qualcosa tipo, non lo so, un parco. Non ti piacciono i parchi?»

«Se vuoi chi mi piacciono i parchi, mi piacciono i parchi.»

Si guardarono.

«E perché i taxi?» fece lui.

«Non lo so. Sono tutti uguali. E ti portano dove vuoi.»

Mr. L finì la birra e guardò per qualche secondo il bicchiere vuoto, poi sorrise.

«Una volta, per motivi di lavoro, ero in una città in cui non ero mai stato e ho preso un taxi. Sono salito e il tizio mi ha chiesto dov’è che volessi andare a quell’ora di notte. Allora, dato che non avevo idea di dove andare per bere qualcosa, gli ho detto di portarmi nel posto in cui sarebbe andato lui se non avesse avuto da lavorare.»

Mercedes lo guardava, senza girare la testa, puntata contro la vetrata.

«“E secondo te come lo spiego a mia moglie un cazzo di estraneo che dorme sul divano?” mi ha detto.».

Lui rise per primo, piano, poi sempre più forte. Lei lo guardò sghignazzare, sempre senza muovere la testa. Un sorriso, però, scappò allo sforzo di rimanere impassibile e le illuminò il volto. Alla fine rise anche lei.

«Ti ho fatta ridere.» le disse.

«È una battuta cretina.»

«Alla mia età iniziano a piacerti solo queste.»

Mercedes continuò a sorridere, finché l’occhio non le cadde sull’orologio appeso di fronte a lei. Guardò il suo, scostando la manica del gubbino, poi fissò di nuovo Mr. L, che ancora sorrideva. Lo fissò e ripensò al motivo per cui era lì, al motivo per cui entrambi erano lì. Ma qualcosa di quello che pensava doveva esserle sfuggito dagli occhi o da qualche movimento del viso, perché l’uomo tornò serio anche lui e le fece subito la domanda.

«Che hai?» le chiese.

«Niente.»

«Non è vero.»

«Niente, dico davvero. È solo un po’ tardi.»

«Non avevamo stabilito un orario preciso.»

«No, infatti.»

«Allora che c’è?»

«Davvero, niente.»

L’uomo non era soddisfatto della risposta. Prese il piatto con le patatine e lo spostò al centro del tavolo, con un gesto lento della mano.

«Va bene, giochiamo come giochi tu, Mercedes. Ho pagato, no? Non ha senso conoscerci, è vero, ma finché sono io che pago, tu fai quello che dico io. Non ti obbligo a farti piacere i parchi, ma se voglio sapere cosa ti passa per la testa, tu me lo dici. Va bene?»

La ragazzina si mise dritta sulla schiena.

«Mi chiedevo… ma non lo voglio sapere.»

«Questo lo decido io.»

Mercedes incrociò le braccia.

«Mi stavo chiedendo… non mi sembri uno che…»

«Uno che…?»

Lei non continuò.

«Ho capito.» disse Mr L.

Drizzò la schiena e, anche lui, incrociò le braccia. Si guardò attorno un po’ seccato dalla presenza delle altre persone che andavano avanti e indietro e infine tornò su Mercedes.

«Non è stato facile per uno come me arrivare a quelli che ti hanno mandata qui. Certe cose sono difficili da trovare. Certe cose, all’inizio, sono anche difficili da accettare, ma alla fine mi sono accettato. Non ci provo neanche più a giustificarmi, né con me stesso né con gli altri. Non dico che ho il coraggio di urlarlo in strada, la maggior parte delle persone direbbe la cosa che tutti mi dicono sempre. Che ho bisogno di aiuto. Ma questo, io e te qui, è l’unico aiuto di cui ho bisogno. Il motivo, invece, il perché… chi sono io per capirlo? È scienza, no? O sfiga. Forse tutt’e due.»

Mercedes non mosse un muscolo.

«E adesso che c’è?»

«Niente.» ripeté lei.

«Dimmelo.»

«Beh, continui a sembrarmi uno che non vuole farlo.»

L’uomo sorrise.

«Lo so.»

La cameriera passò di nuovo vicino al tavolo, palleggiando lo sguardo tra loro due e l’orologio. Si allontanò nervosa.

«So cosa ti stai chiedendo, ancora.» fece lui.

«Io non mi sto chiedendo niente.»

«Ti stai chiedendo perché non ho fatto tutto da solo, invece di arrivare a questo. A spendere tutti quei soldi, quando questa cosa potrei farla gratis. Non è vero?»

La ragazzina restò in silenzio. Lo fissava.

«È che non ce la faccio. Ci ho provato. Ma non ce la faccio. Ho avuto qualche occasione, sai, di provare. Ma non ce la faccio.»

Mercedes restò muta.

«Per te non è la prima volta, vero?» le chiese lui.

Mercedes scosse la testa.

«Hai solo tredici anni, cazzo.» disse lui.

Silenzio, ancora.

Poi lei decise di parlare.

«A quest’età non rischio quasi niente, se la polizia ci becca a farlo. Ma non ci becca. E se beccano solo me, a quelli che hai contattato non importa niente, perché praticamente non sono nessuno. Loro non sono i miei tutori e quelli veri mi stanno ancora cercando insieme alla polizia. Ma molto lontano. Probabilmente si sono arresi. Tra un paio d’anni cambia tutto, però. E quando ne farò ventuno posso anche cambiarmi il nome. Se non mi beccano fino ai ventuno, loro mi lasciano andare e io uso i soldi che ho fatto per…»

Si fermò.

«Per fare qualcosa, credo.» disse alla fine.

Mr. L l’aveva ascoltata senza staccarle mai gli occhi di dosso. Si mosse verso il tavolo e affondò entrambe le mani nei capelli.

«Merda. Vuoi farmi stare ancora peggio?» disse.

Mercedes guardò di nuovo l’orologio.

«Abbiamo finito?» gli fece.

Lui alzò la testa.

«Sì.»

«Va bene.»

Mr. L si ricompose.

«Ho tutto in macchina.» le disse.

Lei non gli rispose.

 

 

Uscirono dal parcheggio a bordo della berlina verde bottiglia, lasciandosi dietro i neon del diner e le strade trafficate. Mercedes disse che conosceva un posto dove nessuno andava mai a quell’ora, un posto praticamente dimenticato sia da Dio sia da chi voleva stare in santa pace. L’uomo si fidò ciecamente, aveva altro a cui pensare.

Le mani gli scivolavano sul volante, la guida si faceva sempre più indecisa. Lei lo attribuì al fatto che riuscisse già a figurarsi quello che di lì a breve avrebbero fatto. Un pensiero che, nonostante tutto, non riusciva a scuoterla.

Il ponte sopra di loro schermava quasi del tutto la luna. I rumori del traffico notturno sovrastavano qualsiasi altro suono. Era davvero il posto perfetto. Mr. L, scalando le marce, parcheggiò la berlina dietro a uno dei giganteschi piloni.

«Che ne dici?» chiese lei.

«È perfetto.» disse lui.

Le si avvicinò, con calma, e con la mano le sfiorò la coscia. Sorrise e, deciso, continuò il movimento fino ad aprire il porta oggetti. Entrambi ci guardarono dentro.

«Per te va bene?» le chiese.

Lei annuì.

«Vuoi farlo qui in macchina?» gli domandò.

«No. Vorrei… vorrei che fosse all’aria aperta. Ti va bene, sul cofano? Che ne dici? Si può qui?»

«Qui non c’è mai nessuno.» disse lei, chiudendo il porta oggetti.

I due sportelli si aprirono all’unisono. Entrambi scesero e camminarono verso il cofano. Mr. L aprì il cappotto lungo e lo fece volare sopra l’auto. Mercedes, davanti a lui, era a sei o sette passi, contro l’unico raggio di luna che li colpiva. Non si riusciva a vederla negli occhi.

Passò qualche secondo senza che succedesse niente. Il rumore dei camion e l’eco dei motori era assordante. Lei era pronta. Lui anche.

«Mi dispiace.» le disse.

Mercedes non rispose. Tese il braccio e gli sparò

L’esplosione si perse in tutto quel frastuono. Mr. L cadde sul cofano con un buco al centro del petto. La pallottola frantumò il parabrezza in milioni di schegge del colore argentato della luna.

Quando lei si avvicinò, lui muoveva ancora i piedi.

Mercedes gli sparò ancora, sempre nel petto.

Mr. L non si muoveva più.

La ragazzina si chinò, come era abituata a fare, per frugargli le tasche. Nei pantaloni trovò solo qualche banconota da cinque e il resto del diner. Nella tasca interna del cappotto, invece, trovò qualcos’altro.

Lo spostò alla luce della luna, passando di nuovo davanti a Mr. L, steso contro i fari spenti dell’auto. Un medico dalla grafia quasi illeggibile aveva scritto “Precoce”, “Ereditario” e anche una parola di cui Mercedes non sapeva assolutamente il significato. Sotto, con termini fin troppo complicati, c’era scritto che, entro qualche anno, Mr. Leoni avrebbe iniziato ad avere gravi problemi di memoria. Questo, diceva il dottore, fino a “perdere quasi completamente la percezione di sé e del proprio vissuto”.

Mercedes ripiegò il foglio e lo infilò nella tasca del giubbino. Pulì la pistola sul maglione e la gettò a terra.

Mentre faceva l’autostop su una strada a cinque minuti da dov’era ora Mr. Leoni, pensava a quanto era stato stupido.

Lui aveva pagato per morire.

Lei, ne era convinta, avrebbe pagato per dimenticare.

 

 

 

 

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