Michele Crescenzo, Ospite

Se dovessi trovare una definizione per Michele Crescenzo credo che lo identificherei come “hooligan della letteratura”, perché è difficile incontrare un lettore più appassionato e preparato di lui. Nel corso degli anni mi è capitato di incrociare Michele in qualsiasi tipo di manifestazione: nei festival, nelle fiere del libro, alle presentazioni in libreria, agli aperitivi letterari, ai reading nei centri sociali. Se c’è un evento interessante in città la probabilità di incontrarlo è altissima. Michele ha saputo incanalare questa passione anche in forma attiva, fondando insieme a due amici la rivista letteraria “Cadillac” e lavorando al progetto di un sito web letterario che si preannuncia di grande utilità, ma che è ancora in fase di elaborazione. Come scrittore Michele è metodico e molto attento. Dedica ogni mattina una o due ore alla scrittura prima di recarsi al lavoro e riscrive i propri racconti un’infinità di volte, sempre alla ricerca della versione più vicina ai suoi (elevatissimi) ideali. Lo dimostra anche questo breve testo dal sapore nordamericano, una storia che contiene gli echi di un romanzo e che l’autore sceglie invece di condensare in una scena marina di grande profondità e fascino.

Michele Crescenzo, Ospite

 

A Diego

 

«Voglio vedere il salto della balena! Hai capito?» Mi volto e vedo una bambina strapazzare il braccio di una donna, che, senza smettere di parlare al cellulare, le risponde che basterà avere un po’ di fortuna. La piccola inclina la testa: «come… fortuna?»

Strizzo gli occhi e mi sposto per guardarle meglio, non mi incuriosiscono solo perché sono italiane come me ma anche perché sembrano le uniche che danno segnali di vita in questa fila di turisti annoiati, a corto di parole, fermi in un’attesa sonnacchiosa.

Non posso esserne sicuro al cento per cento ma scommetterei che quelle due sono madre e figlia; sono entrambe magre e slanciate, hanno i capelli legati in una coda di cavallo, indossano lo stesso tipo di giacca a vento e hanno perfino l’identico modo di tamburellare le dita sulla gamba destra e iniziare le frasi con “voglio” o “avevi detto”. La donna è infastidita, alza la mano a mo’ di minaccia poi fruga nella borsa e afferra un tablet. Lo passa alla bambina che inizia a giocarci facendo rientrare la fila nel silenzio.

Sotto una pensilina rossa un piccolo gruppo di persone ascolta il notiziario argentino. Qualcuno dice qualcosa e tutto il gruppetto scoppia in una sonora risata. Volto lo sguardo dall’altro lato, verso l’oceano. Piccole creste avanzano lentamente verso riva. Una figura minuscola maneggia delle funi su una barca in lontananza. Il vento riempie il suo maglione rosso e lo gonfia come una piccola vela.

In fondo alla fila due uomini con una divisa blu finalmente si spostano di lato e fanno muovere i primi passeggeri.

Avanzo di circa due metri, proprio in una zona toccata dal sole ancora basso della Patagonia. Frugo nelle tasche della giacca in cerca degli occhiali scuri ma non li trovo. Mi sfilo lo zaino dalle spalle e urto accidentalmente un ragazzo, un altro viaggiatore solitario.

Gli chiedo scusa, lui smette di leggere l’edizione anglosassone di Rayuela di Julio Cortázar, e inizia a parlarmi in inglese. Si sarà presentato già diverse volte, perché le parole sembrano ripetute a memoria, con pause e citazioni. Con quel faccione giovane e coperto da una barbetta incolta mi racconta che è della provincia di Manchester, appassionato di letteratura sudamericana. Deciso a risalire la Route 40 come Guevara. Ha scelto l’Argentina perché una persona “è attratta dai posti in fondo al mondo perché pensa che lì potrà trovare quello che è in fondo a sé stesso”.

Queste ultime parole si fissano nella mente e ignoro tutte le altre frasi a effetto. È per questo che sono qui? A chilometri di distanza dalla mia azienda? Sono qui per arrivare fino in fondo a me stesso e poter affrontare al meglio questa mia nuova e indesiderata libertà?

La fila torna a muoversi ma il ragazzotto inglese continua a parlare senza sosta. Gli unici che riescono a interromperlo sono gli uomini in divisa che ci consegnano dei giubbotti di salvataggio arancioni che lui cautamente tasta, scuote e mette accanto all’orecchio con fare esperto.

Ci indicano un’imbarcazione bianca, oltre il piccolo molo, a un centinaio di metri da noi, ferma su tronchi affossati su sabbia nerastra.

Il ragazzo inglese scatta veloce verso la barca, si aggrappa alla piccola scaletta di legno e si innalza con un veloce movimento addominale. Tanto vigoroso quanto buffo. Rido senza farmi notare e lo seguo.

Il capitano – capelli bianchi e faccia bruciata dal sole – mi stringe forte la mano e mi dà il benvenuto. Ha una stretta ferma, col braccio rigido, la spina dorsale dritta e lo sguardo fisso sui miei occhi.

La barca sembra vecchia e troppo piccola per dieci persone. La verniciatura bianca è sbiadita e scrostata, e ci si può sedere solo sulle panchine lungo tutto il bordo.

Mi guardo intorno per cercare un posto. Il ragazzotto inglese mi fa un cenno indicandomene uno libero accanto a lui. Appena mi siedo mi indica la persona in cabina, una quarantenne magrissima con una divisa sbiadita. Mi fa notare lo scarabeo in oro nei suoi capelli schiariti dal sole, quello è un portafortuna che viene usato dalle donne che vanno in mare. L’ha letto in un libro di Sepulveda. Annuisce con fare soddisfatto e riprende il suo monologo proprio dal punto in cui era stato interrotto. La sua è la storia di chi si avventura lontano da casa come un pellegrino, un esploratore, un uomo del destino, ed è sicurissimo che durante questo viaggio farà tanti incontri indimenticabili.

Quando finisce di parlare, rimaniamo entrambi in silenzio. Mi giro intorno. Alcuni ventenni spagnoli scattano foto buffe sulla prua mimando il film Titanic. Due coppie di signorotti americani – gli uomini con calzoni corti e cappello a tesa larga da sceriffo e le donne con tute scure Adidas – si confrontano su cosa utilizzare per il mal di mare. Quando il mio sguardo ritorna su di lui, il ragazzo è lì, con un’espressione attenta e curiosa, in attesa di conoscere la mia di storia.

Gli mento. Non gli parlo né di Elisa né che questo viaggio era uno dei miei tanti tentativi falliti per rimettere insieme i cocci del nostro matrimonio. Non gli dico che non avrei riavuto indietro i soldi e comunque preferivo fare questo tour dell’Argentina da solo piuttosto che andare a vivere subito in quel monolocale.

Il mio racconto improvvisato si interrompe perché sento delle piccole urla dietro di noi. La bambina italiana muove le braccia, sbatte i piedi per terra e domanda, tra l’agitato e l’ingenuo, dove si trovi il pulsante per far uscire la balena.

La madre cerca di tenerla buona ma è nervosa. Lo noto dalla tensione del labbro inferiore, dalla vibrazione della narice.

Proprio in quel momento il capitano si cala con una corda verso l’esterno della barca. Dà una botta a mano aperta a un grosso salvagente arancione. Poi lo tasta. La sua capigliatura arruffata, corta e scolorita, la sua figura scarna e la linea dritta delle spalle sembrano quelle di un ragazzo. Come se il suo sviluppo, il suo stesso spirito si fossero arrestati in qualche estate della giovinezza. L’uomo cammina con passo sicuro fino al centro della barca. Si alza in piedi su di un vecchio sgabello, senza dire nulla.

I turisti lo notano, le ragazze spagnole ridacchiano facendo qualche battuta indicando il pantalone rattoppato.

Il capitano non dice una parola fin quando i passeggeri non smettono di parlare e ridacchiare. Poi ci spiega che conosce solo lo spagnolo e un po’ d’inglese ma che le parole, per le prossime due ore saranno completamente inutili.

Uno degli anziani americani, si toglie gli occhiali scuri placcati d’oro, alza la mano e chiede, con aria boriosa quali siano i posti migliori per l’avvistamento. Lui allarga le braccia. Dipende dalla balena, da dove deciderà di spuntare.

“Non è giusto, io volevo la business class”. Scherza il ragazzo inglese imitando l’accento americano.

Alcuni ridono. L’anziano fa una smorfia di disappunto. Altri si fanno tradurre o spiegare la battuta.

Il capitano fa un cenno alla donna nella cabina di comando. Lei annuisce. Alcuni uomini spingono la barca verso il mare. In pochi minuti ci sentiamo scivolare verso il basso poi rialzare, solcando le onde della costa.

La barca oscilla nell’acqua, strofina contro i piloni i sacchi di iuta per attutire i colpi poi si stabilizza. Siamo sull’oceano Atlantico.

Il primo suono che colpisce le orecchie è proprio la completa assenza di rumore e la prima sensazione è quella di inquietudine. Di mancanza. Il silenzio sembra diffondersi tutt’intorno fino a sommergermi.

Due gabbiani seguono l’imbarcazione muovendo freneticamente le ali, poi scendono improvvisamente come se volessero controllarla dal basso. Il capitano lancia qualcosa simile ad un anguilla in aria, loro la lasciano cadere in acqua poi strillano e si azzuffano per contendersela.

Un ragazzo spagnolo fa finta di lanciarsi in mare e una ragazza – capelli lunghi e scuri, canottiera attillata, anelli d’argento su tutte le dita – fa un urlo e lo tira a sé. Un loro amico, seduto accanto, fa una battuta e tutto quel gruppo ride.

Il ragazzotto inglese cerca frettolosamente qualcosa nel suo zaino, dopo poco prende la guida dell’Argentina e la sfoglia. Mi indica un lontano punto della scogliera a forma di piramide ed esclama fiero: «Puerto Piramides».

Mi sussurra che lui sta alloggiando in quel piccolo villaggio e che proprio ieri ha preso il sole a trenta metri da una colonia protetta di leoni marini e pinguini. Entusiasta mi chiede di fargli una foto ricordo. Mi dà la sua Canon e si mette in posa, con il profilo cespuglioso e paffuto che guarda verso l’orizzonte. Mi alzo e l’odore di salsedine mi investe a folate, come se me lo stesse soffiando addosso un ventilatore.

Il capitano si alza dalla poppa della barca e ritorna al centro. Incrocia le mani e rimane in silenzio. Pian piano, come prima, smettiamo tutti di parlare.

La bambina gli è accanto, lo guarda e dice: «Io…Io voglio vedere il salto della balena!»

Lui le sorride. Le siede accanto. Con poche parole e indicando la madre, lei e la barca le spiega che le balene franco-australi arrivano nel golfo della penisola di Valdés per partorire, per nutrire e per insegnare ai piccoli a procurarsi il cibo. Bisogna quindi restare in silenzio per permettere loro di percepire solo il movimento della barca e avvicinarsi incuriosite.

Silenzio per attrarre, per incontrarsi. Per incuriosire. Proprio l’opposto di quello che ho fatto con lei.

Chiudo gli occhi e penso a Elisa. A quel modo rigido di sedersi davanti allo psicologo di coppia e di asciugarsi le lacrime con il dorso della mano macchiandosi le nocche di mascara. Quelle lacrime le uscivano sempre, ad ogni seduta. Era l’unico modo che conosceva per farmi stare zitto, per farmi rimanere in gola tutte le parole, i buoni propositi, i tanti tentativi di riavvicinamento, come quello stupido corso di tango, come questo viaggio.

Riapro gli occhi e la bambina è con la testa inclinata da un lato, le sopracciglia sollevate e la bocca serrata. Annuisce. Il capitano le mette la mano sulla testa e le scompiglia un po’ i capelli stretti in una coda di cavallo. La madre le rimette in ordine l’acconciatura e poi rimette entrambe le mani salde sul cornicione della barca. Ormai non nasconde più la paura.

L’uomo si alza. Uno sguardo verso la spiaggia in lontananza, poi fa un cenno alla collega che spegne il motore, lasciando che la barca venga cullata dal respiro dell’oceano. Entrambi fanno cadere l’ancora facendo rapidamente srotolare una corda di canapa. Quando l’ancora tocca il fondo, la barca oscilla in modo diverso, ha iniziato a seguire il ritmo delle correnti più profonde.

Il gruppo segue la mano del capitano che indica un gabbiano che si specchia nell’oceano. All’improvviso uno spruzzo d’acqua si allarga sul mare a dieci o quindici metri da noi. Da sott’acqua arrivano delle bolle, poi una schiuma bianchiccia proprio accanto al volatile. L’effervescenza si dissolve e appare una grande macchia scura.

La bambina, aggrappandosi alla mano della madre, sussurra: «guarda, guarda». Ma la donna chiude gli occhi e inizia a respirare profondamente toccandosi il ventre, come se fosse qualche tecnica contro l’ansia o il panico.

La balena sale in superfice senza irruenza, spruzzando solo un po’ d’acqua. Rimane a galla girando su se stessa, facendo ondeggiare leggermente la nostra imbarcazione.

Non si distinguono né gli occhi, né la sua grandezza reale. C’è soltanto questa gigantesca massa nera che si rigira accanto a noi. Afferro il bordo della barca. Controllo il giubbotto di salvataggio.

Sorrido, poi rifletto: di cosa dovrei essere spaventato? Se quell’animale capovolgesse l’imbarcazione e cadessi nell’acqua cosa perderei? Invece di esorcizzarla però la mia paura diventa così simile allo sconforto che mi lascio andare lungo la panchina di legno.

La balena ritorna nell’oceano tra il tenue rumore di scatti fotografici. Il ragazzo inglese mi dà una pacca sulla spalla come a rincuorarmi per la breve apparizione. Mi avvicina la Canon e mi mostra, fiero, un’immagine in cui si distingue nitidamente un occhio del mammifero.

La bambina ha un’espressione divertita, fossette nelle guance. Ha lasciato la mano della madre che afferra con forza il bordo della barca. La donna ha lo sguardo rivolto verso il basso, verso l’angolo di legno e la sabbia bagnata. Il respiro è più affannoso. Le caviglie le tremano al di sopra degli stivaletti. Sembrano persone completamente diverse ora.

I ragazzi spagnoli parlano sottovoce in modo frenetico. Gesticolano. Spalancano gli occhi. Una ragazza agitata prende la mano di un’amica e la mette sul cuore.

Il gruppo, lentamente, torna in silenzio.

L’oceano è calmo. Luccichii ondeggiano su di un azzurro opaco uniforme.

Il ragazzotto inglese è nervoso, muove lo zoom della sua Canon contro ogni cosa che si muove sull’oceano. Mi alzo e mi sposto piano sulla prua della nave, verso un posto meno ambito. Abbasso lo sguardo.

Sono solo un fallito, un collezionista di tentativi non riusciti. Quando rientravo dall’ ufficio Elisa se ne stava tutta la serata seduta in poltrona. Occhi fissi sui disegni del tappeto. Certe volte restava lì anche la notte. Le chiedevo del suo lavoro, se volevamo andare al cinema, se volevamo comprare un cane o un gatto o qualsiasi altra cosa. Se volevamo provare i passi di tango che a lei sembravano piacere così tanto durante le prime lezioni. Poi sboccavo e le urlavo di tutto.

Un tempo bastava un regalo inaspettato – un vestito in esposizione nella vetrina del suo negozio preferito, dei fiori, dei biglietti per un concerto – per sorridere insieme, cos’è cambiato? Cosa si è rotto?

Passo le mani sulla faccia, sono sudato. Scuoto la testa. Dove ho sbagliato? Cosa ho fatto per rovinare il nostro rapporto?

Sentivo che anche i miei sentimenti erano cambiati ma non m’importava. Ci eravamo promessi amore per sempre scambiandoci le fedi sull’altare, qualcosa questo significherà? Dovevamo insistere, dovevamo decisamente insistere e l’amore sarebbe tornato.

Sento una mano che stringe piano la mia spalla. È il capitano che mi alza il mento per farmi sollevare il volto e mi spinge a guardare intorno. Il gruppo appare molto più coeso e ordinato di quello che mi sembrava prima. L’attesa ha fatto crescere l’intensità. Cannocchiali tra le mani e indici verso l’orizzonte. Parole dette sottovoce.

L’uomo mi sussurra qualcosa che non capisco e mi fa alzare. Mi indica una balena che sbuca dall’oceano opaco mostrando la sua grande coda. Proprio in quel punto appare una grande macchia giallastra. Dopo pochissimi secondi un’altra fuoriesce proprio da dentro quella chiazza con la bocca aperta. «Milk» mi borbotta all’orecchio. Il piccolo balenottero rimane così per un po’. Riesco a distinguere gli occhi e le grandi macchie sul dorso.

Dopo una dozzina di minuti ne arrivano altre due. Con incredibile semplicità, il capitano le riconosce e distingue la loro età dalla forma delle macchie intorno agli occhi. Si mette al cento della barca e le chiama “pizza margherita” e “nuvola”. Osservo il gruppo che segue le sue parole. Sono tutti ammutoliti come dopo un gioco di prestigio tranne le due coppie di americani che scherzano sottovoce come ragazzetti tra banchi scolastici.

La bambina si muove con fare disinvolto, gesticola, saltella, cerca di coinvolgere la madre. È lei che la sta rassicurando, non il contrario.

Una balena emerge vicinissimo alle due. Questa volta riesco a vederla bene. Misura otto metri almeno. «Se trata de una hembra embarazada.» sussurra il comandate ma dopo poco si rende conto che solo i passeggeri spagnoli hanno capito quello che ha detto. Muove la mano sul suo ventre. Quella balena è incita.

Non capisco come avesse potuto distinguere il sesso e anche accorgersi che è gravida. Il capitano nota il mio sguardo dubbioso e mi spiega – mimando e con un inglese abbozzato – che lo si capisce dal modo di emergere: lentamente e con il corpo quasi orizzontale al momento di toccare la superficie.

L’uomo si allontana. Io mi siedo. I momenti di silenzio non mi danno più fastidio. Anzi, mi permettono di sentire ogni singolo rumore che mi circonda: i gorgoglii dell’acqua, i sussurri del gruppo e gli spruzzi delle balene in lontananza. Vedo ogni cosa e percepisco quanto io sia piccolo, quanto sia, ora, solo uno spettatore del cielo, dell’oceano e delle sue regine che non fanno null’altro che uscire dall’acqua e spruzzare un po’. Nutrire e respirare. Rituale semplice, istintivo.

Mi risiedo accanto al ragazzotto inglese. Non tamburella più con il piede, non fa nemmeno tante foto. Si guarda intorno, ha le braccia attorno al petto come se si volesse abbracciare. Ripete in continuazione «so true» e «real». Lo fa sporgendo il labbro inferiore, con un timbro incerto nella voce.

La bambina allunga la mano fuori dalla barca, prova ad accarezzare i gabbiani che ciclicamente si avvicinano a noi. Alterna pazienza ed entusiasmo. La madre la tiene ben stretta, abbracciandola da dietro ma senza stringere troppo.

A circa cinquanta metri una balena fa improvvisamente un balzo fuori dall’oceano mostrandosi in aria – per pochi secondi – dal capo alla coda. Un salto tanto breve quanto possente ma perfetto perché riusciamo a vederla tutta in aria – orizzontalmente – alla distanza di venti o trenta centimetri dalla superficie dell’oceano. Il movimento ha la vivacità della trota, ma ricade in mare come una pesante trave e fa un rumore così forte che le ragazze spagnole si tappano istintivamente le orecchie con le mani.

Le onde prodotte da quella specie di esplosione si estendono fino alla nostra barca ma nessuno è preoccupato anzi, il gesto del mammifero ha suscitato un applauso spontaneo da parte di tutti i passeggeri. Perfino il capitano non riesce a trattenere un sorriso. La coppia di americani si abbraccia. La bimba batte le mani urlando «ha saltato, ha saltato.» Si scioglie la coda di cavallo e saltella. La madre sorride, non prova nemmeno a sistemarglieli.

«Es feliz!» Il capitano spiega che alcuni marinai sono dell’opinione che la balena faccia questi giochi d’acqua nei momenti di allegria. Non si sa se è vero ma è bello pensare che sia così.

Accanto a lui c’è la collega, l’addetta ai motori. La donna prende lo scarabeo dorato portafortuna e lo bacia.

Io sto bene. Mi sento sereno dopo non so nemmeno più quanto tempo. Non mi ero reso conto di quanto fosse stancante controllare Elisa, ricordarle quello che mi sembrava giusto, quello che ci eravamo promessi.

Certe volte le cose, semplicemente, accadono. Si rompono e non ci puoi fare nulla. E non c’è alcuna sconfitta, e nemmeno colpa.

Inspiro ed espiro profondamente. Abbasso le spalle. Vorrei portarlo via con me, rinchiudere in una scatola del mio cervello questo spettacolo di istinti e grandezza. Questa nuova e impensabile sensazione di sentirmi solo un fortunato e minuscolo ospite.