giorgio Fontana , In tempo di pace

GIORGIO FONTANA

Da qualche tempo è in atto un interessante fenomeno di avvicinamento fra i giovani narratori italiani e il mondo dei supereroi a fumetti. Più volte, nel corso degli ultimi mesi, mi sono stati sottoposti racconti e romanzi nei quali gli eroi dei comics vengono utilizzati come personaggi letterari, spesso in una veste intima e dimessa, assai lontana dall’immagine di invincibilità a cui siamo abituati. Una rielaborazione in chiave psicologica a volte un po’ scontata, altre ben riuscita e affascinante. E’ il caso di questo racconto di Giorgio Fontana, che parte dalla geniale intuizione di collocare i supereroi in pensione nel luogo dove naturalmente dovrebbero stare: in un negozio a vendere i loro fumetti.

In tempo di pace

Arrivai a New York nel tardo pomeriggio. Era la prima volta che ci mettevo piede, da quando era stata siglata la pace. All’epoca Dean si era appena trasferito in Australia: non avevo più nessuno da andare a trovare. Così seguii gli eventi solo in televisione, ripromettendomi di fare un salto al più presto. Volevo toccare con mano. Capire cosa sarebbe successo.
Passarono cinque anni. Sapete come vanno queste cose.
Ma adesso ero di nuovo lì, a girellare con le mani in tasca. La città mi si offriva di nuovo su un piatto, come quando ero più giovane: non tanto diversa da un giocattolo, o un vecchio libro. Avevo molte idee in testa, un sacco di posti da rivedere: ma prima di tutto dovevo andare alle fumetterie. Per un certo periodo si era parlato solo di quello. Adesso erano cadute un po’ nel dimenticatoio, ma per un europeo potevano esercitare ancora fascino. In una mail, Dean le aveva definite «il nuovo equivalente delle Torri Gemelle». Non andava tanto lontano dal vero, e avrei capito in fretta perché.
Le fumetterie erano entrambe lungo una strada un po’ dimessa, a sud di Manhattan. Palazzi con le facciate rose, una cert’aria da secolo scorso. La via era piena di spazzini e gente con la macchina fotografica. Un barbone rigirava una scatola di uova fra le mani. Non era una via particolarmente squallida – semplicemente, sembrava tutto un po’ fuori luogo.
La DC era sul lato destro, al numero 78. Davanti all’entrata, seduto su uno sgabello verde come un vecchio, c’era Bruce Wayne che si rollava una canna. Indossava il costume di Batman, ma senza cappuccio. Aveva l’aria spenta e poco presente. Di fianco a lui, Robin guardava la folla con le mani appoggiate ai fianchi. Pochi si fermavano. Era una tappa obbligata, perché era sulla via, ma più che altro la gente dava un’occhiata alle vetrine, scattava una foto a Wayne, e poi tirava dritto. Feci lo stesso anch’io. Batman non mi dispiaceva, ma avevo un odio viscerale per Superman.
Del resto, la vera attrattiva era la fumetteria della Marvel. Sia perché New York era la loro città, sia perché erano stati loro a dare il via alla cosa. Il negozio della DC era un po’ come un clone di immigrati – una roba buona per i giapponesi. E io non ero un giapponese del cazzo. Ero uno che aveva vissuto nel Bronx.
Entrai, facendomi largo fra la folla. L’interno era molto vasto, con i fumetti disposti su quattro lunghe tavolate. In fondo la sala si apriva in altre due appendici, formando una specie di T. L’atmosfera era quasi irrespirabile. L’aria puzzava di sudore, caldo e carta. Sembrava di entrare in una dimensione liquida.
Naturalmente, i primi tempi la gente ci veniva per i supereroi. Dei fumetti non fregava niente a nessuno. Poi, col passare del tempo, divenne una cosa come un’altra. Tanto più che, essendo tempo di pace, i supereroi si limitavano a rimettere in ordine gli albi e litigare con i clienti. A parte i turisti che ancora non c’erano stati, ora l’obiettivo si era ribaltato. La fumetteria della Marvel era veramente un’ottima fumetteria. I collezionisti la prendevano d’assalto. Quanto ai supereroi, be’, ormai erano solo ciò che erano. E cioè dei commessi.
Mi misi in coda pazientemente, guardandomi attorno. Intravidi Wolverine e la Donna Invisibile. Sembravano tutti più piccoli e semplici che sulla carta. Sulla sinistra, all’incirca a metà strada, c’era l’Uomo Ragno. Sentii il respiro accelerare di colpo. Cercai di regolarlo distogliendo lo sguardo. Dietro di me c’erano dei ragazzini di quattordici anni che parlavano fitto.
«Cristo, qui c’è sempre delirio.»
«Sì, è allucinante. Dovevamo venire più tardi.»
«Già.»
«Comunque dai Vendicatori io non ci vado», disse il più alto dei tre. «Capitan America è troppo un figlio di puttana. L’altro giorno mi ha sbattuto fuori perché sono stato mezz’ora a guardare senza comprare niente.»
«Davvero?!»
«Giuro.»
«Come commessi fanno abbastanza pena in generale.»
«Be’, Cristo, Billy. Erano dei supereroi.»
«Ho capito, ma che si diano almeno una regolata. Sono aperti da cinque anni, e Devil ancora non capisce quali cazzo di numeri darti.»
«E’ cieco, Billy.»
«Appunto, Cristo Dio! Appunto!»
Risero. La fila si snellì un poco. Sgattaiolai sulla sinistra e cerca di avvicinarmi all’Uomo Ragno. Era appoggiato a uno scaffale e sbadigliava. La sua zona non era molto battuta, così raccolsi tutto il mio coraggio e gli parlai.
«Ciao», dissi.
«Ehi», disse lui. Aveva una voce un po’ stridula.
«Come va oggi?»
«Mah, normale. Niente di straordinario.»
Annuii.
«E’ la prima volta che vieni qui, vero?», chiese lui.
«Sì.»
«Si vede. Hai la tipica faccia di chi sta pensando: Gesù, sto parlando sul serio con l’Uomo Ragno.»
Mi sforzai di sorridere. Andava tutto bene: dovevo seguire quella meccanica banale, le battute dell’eroe caduto e quelle dell’avventore curioso.
«Si nota così tanto?», chiesi.
«Abbastanza.»
«Lo temevo.»
«Non ti preoccupare.»
Tacqui. Lui si mise a scartabellare fra i fumetti. Sembrava quasi più nervoso di me. Saltò fuori la copertina di un Amazing Spiderman dove Mary Jane aveva delle tette ancora più pazzesche del solito. La guardai per un secondo di troppo, evidentemente, perché lui la fece sparire con un movimento esperto della mano.
«Stavi cercando qualcosa di particolare?», mi chiese lui.
«Eh? Sì. Cioè, mi guardo attorno un attimo.»
«Okay.»
«Senti», dissi poi. «So che sto per dire una fesseria. Lo so. Ma… Non ti manca la vita da supereroe? Voglio dire, al di là di fare ciò che fai durante il giorno… La sera non vai in giro per i tetti o cose del genere?»
Non sembrò stupito dalla domanda. Soltanto stanco. Doveva essere la milionesima volta che se la sentiva porre. Sempre riordinando gli albi che lo celebravano, mise insieme una risposta automatica: «Sì.» Inspirò, mi puntò contro quello sguardo da eterno nerd. «E’ ovvio», riprese. «Non si smette di essere supereroi da un momento all’altro. I primi tempi uscivo di testa. Per due anni ho fatto pattuglie anche se non ce n’era bisogno. E così gli altri. Tutti. Poi però ti abitui. Alla fine il lavoro non è male.»
«Ma davvero non c’è più criminalità… niente?»
«Solo robetta. La polizia fa tutto il lavoro. E lo fa bene.»
«E la gente?»
«La gente cosa?»
«Non vuole più dei supereroi?»
«Pare di no. E poi sai una cosa?», disse. «Secondo me eravamo davvero troppi. Uno finisce per averne piene le palle.»
«Ma tutta la gente che hai salvato», dissi. «Tutti quelli che ti devono la vita.»
«Ah, chi lo sa. Credo che la pace abbia cancellato tutto, il bene e il male, indistintamente. Del resto è naturale. Dimenticare, voglio dire.»
«Cristo», mormorai d’istinto, e la parola mi si ruppe fra i denti. «E’ pura follia.»
«Lo era anche quando facevo il supereroe. Gran lavoro di merda.»
Cercai di sorridere.
«E comunque», riprese, «l’importante è che la gente sia contenta.»
«Ma sul serio non avete trovato di meglio da fare?»
«Be’, alcuni di noi hanno detto picche, o se ne sono andati tempo fa. Forse è stata una scelta di dignità, o forse no. Vai a capire cos’è la dignità, poi. Ci avevano proposto di entrare nei corpi speciali, ma anche lì, sai com’è… Gente come noi nella polizia… Che io sappia, Hulk è finito in clinica. E La Cosa fa la pubblicità dei Caterpillar.» Sospirò. «Altri sono rimasti, tipo me. Alla fine che diamine potevo fare? Il reporter a tempo pieno? Figurati.»
«E i cattivi? Voglio dire, la pace che avete stretto… il trattato…»
«La risposta è sì, funziona.»
«Incredibile.»
«Eppure.»
«Hai più avuto notizie di loro? Non so, Magneto, Kingpin?»
«Credo si arrangino. Più o meno come noi. E poi un cattivo si ricicla più in fretta.»
«Incredibile.»
«Già.»
«E tu sei qui.»
«Sì.»
«A fare il commesso. A tempo pieno.»
«Precisamente.»
«Pazzesco», dissi, e fui sul punto di tirar fuori tutto, ma non potevo, che senso aveva? Nessuno. Nessun senso.
«Esatto», fece lui con un sorriso. La gente intorno a noi aveva cominciato a farsi più pressante, attendeva il suo turno con impazienza. Peter Parker era di tutti, Peter Parker non era solo mio. «Esatto», ripeté guardandosi attorno, come liberato all’improvviso da un demone, fosse anche solo il demone del commesso. «E’ davvero tutto pazzesco, ma è così. Sono cinque anni che è così e ancora sono qui a parlarne con la gente, con gente come te, e mi stupisco ancora. Persino io.» Scosse la testa. «E’… allucinante, credimi. E dovrei fare la faccia bella, adesso, con te e con tutti, capisci? E io ci provo, e lo faccio, ma non è esattamente per questo che un ragno mi ha morso. O mi sbaglio?»
«No», dissi, cercando di metterci tutta la densità che avevo. «Non ti sbagli per niente.»
«Eppure sono qui, e sai perché? Perché devo difendere le mie cose, le cose buone che ho fatto.» Batté una mano sugli albi. «Sono tutte qui, adesso. Solo qui. Suona patetico, ma è sempre meglio che scrivere vaccate su un giornale. E del resto», sorrise, «da un grande potere derivano grandi responsabilità. O no?»
Trovai il suo sarcasmo bellissimo e crudele. Di nuovo volli dirgli qualcosa, sputare fuori la storia: ma la realtà era come una cappa sopra la mia idea fumettistica del mondo: eravamo in un negozio, a New York City, ed era troppo tardi, troppo tardi e basta.
«Ehi, amico», disse un ragazzino con gli occhiali, dietro di me. «Ne hai ancora per molto?»
«Eh? No, no, scusa. Adesso finisco.»
«Allora», disse a sua volta l’Uomo Ragno, prendendo un tono professionale come per cancellare tutto, ricominciare daccapo. «Posso aiutarti a cercare qualcosa?»
«Sì», dissi, trattenendo a stento i tremiti. «Ho bisogno di un numero del tuo fumetto. Non Ultimate. L’originale.»
«Quale?»
«Non lo so di preciso. Ricordo solo l’anno. 2006.»
Tirò fuori un plico di albi legati con un elastico verde. Levò l’elastico e me li porse tutti, ordinati, profumati.
«2006», disse.
«Posso dare un’occhiata?»
«Hai tutto il tempo che vuoi, amico. Mettiti solo in un angolo tranquillo, prima che Capitan America ti faccia il culo.»
Ridemmo.
«Ti ringrazio», dissi.
«Figurati», disse lui. «Ciao.»
«Ciao.»
Mi allontani, in direzione dello snodo a T della sala, con due impressioni contrastanti in bocca – l’idea che quell’uomo mi avesse parlato come a un amico, come a qualcuno che si stima, e l’idea che facesse così con tutti. La retorica di un fallito contro la confessione di un eroe. Le due impressioni si annullarono in una specie di lucidità neutra, elementare. Eravamo solo io e quei fumetti, adesso. Dimentica tutto. Dimentica l’Uomo Ragno che era e quello che è ora, e pensa solo alla carta: pensa solo a ciò che accadde.
Mi ci volle una mezz’ora prima di trovarlo. La storia non era granché. I disegni appena decenti. Non ero uscito molto bene. Mi si vedeva chiaramente solo in un paio di scene, in fondo a destra, con un braccio sul volto e poi gli occhi terrorizzati. E quel muro. E quel tizio che voleva spaccarmi la testa. Le dita cominciarono a tremare e il fumetto mi cadde di mano. Lo raccolsi. Sfogliai ancora una pagina. C’eravamo io e lui. Le uniche parole che gli avevo detto, esattamente le stesse, tali e quali. Io che lo guardavo. Lui che se ne andava. Il resto era solo l’evocazione a colori di una strada del Bronx, la notte, le antenne contro il vento, i bidoni della spazzatura.
Uscii rifacendo il tragitto dalla parte opposta. Alla cassa c’era Reed Richards. Si divertiva a battere i tasti a distanza. Pagai e uscii. Quello che dovevo fare l’avevo fatto. Avevo un pezzo di carta, e l’idea che potessimo condividere un’altra volta qualcosa, io e lui: un eroe e un ragazzo, a New York, anni fa.
Uscii all’aria aperta, in questa nuova città modello, in questo nuovo tempo modello, determinato a sporcarmi ancora come un tempo. Volevo notte, pericolo e soprattutto molto alcool economico, di quello che ti sfascia l’esofago. Presi la metro e mi diressi verso nord, da qualche parte a nord. Sapevo che a un certo punto, oltre Morningside Heights, c’era un bar che suonava jazz fino all’alba. Ora avevo di nuovo il mio passato. Avevo il mio fumetto.
E avevo tutto il tempo che volevo.