Gianluca Morozzi , Sul tetto del mondo

E’ stato potente il debutto di Gianluca Morozzi nel mondo della narrativa giovanile italiana. Il suo (bellissimo, infatti) romanzo di debutto (“Despero”, pubblicato da Fernandel) rappresenta senza ombra di dubbio una delle vette di quella narrativa rock che è tanto spesso frequentata dai nostri autori (pensiamo solo all’accoppiata Brizzi-Marzaduri o agli esordi della Ballestra), al punto che Il Mucchio Selvaggio ha definito Morozzi “il Nick Hornby italiano”. La scorrevolezza e la felicità di linguaggio che caratterizzava “Despero” si è riproposta nella successiva raccolta di racconti “Luglio, agosto, settembre nero”, ma con una differenza sostanziale: se nel romanzo si percepiva un certo retrogusto di tristezza, nei racconti è la chiave ironica a prendere decisamente il sopravvento. Ciò è particolarmente evidente anche nel testo che presentiamo in questo numero di ‘tina: qui Morozzi racconta come una vacanza tanto sognata e idealizzata possa trasformarsi, a tutti gli effetti, in una tragicomica farsa.

SUL TETTO DEL MONDO

Io ho sempre avuto sogni di prima fascia, chessò, diventare un famoso scrittore, vedere gli Who, vincere l’ottavo scudetto, e sogni di seconda fascia, mettere su una band, vedere Tom Petty, vincere la terza Coppa Italia, cose così. Poi c’è qualche sogno di terza fascia, come salire sull’Empire State Building
Di tutti questi sogni uno si è realizzato: sono salito sull’Empire State Building. Meglio che un calcio in culo, commenterebbe l’Orrido.
Però, come dice il saggio Springsteen, con ogni desiderio arriva una maledizione.

Pomeriggio d’agosto, Empire State Building. Siamo tutti e quattro in fila alle biglietterie, io, l’Orrido, Lobo e la Betty. L’Orrido ha il classico look da motociclista, occhialoni neri, bandana da pirata in testa, maglietta metallara e giubbotto di pelle, con una temperatura sui quaranta gradi. L’Orrido pesa centoventi chili ed ha una sudorazione pronunciata già di suo…
…insomma, sta emanando un odore da cane dal pelo lungo fradicio e infangato. La Betty glielo ha fatto diplomaticamene notare, lui si è lisciato i baffoni spioventi e le ha detto “Eh, lo so, l’afrore di uomo vero ti erotizza, bambina, dai, controlla i tuoi istinti”. Lei lo ha mandato a cagare.
Lobo era un sosia triste di Kurt Cobain, fino a quando non si è tagliato i capelli. Adesso è un sosia triste del cantante dei Blur e dei Gorillaz, e come tale sta firmando autografi a una comitiva di ragazzine olandesi che lo ha assalito davanti alla biglietteria. Lobo conosce giusto tre parole d’inglese, a ogni domanda delle ragazzine si limita a sorridere e a fare sì con la testa. Vezzi d’artista, penseranno le fans del presunto Damon Albarn.
La Betty ha il solito collare punk da dobermann, una maglietta con due mani sulle tette e la scritta You wish, ti piacerebbe. Da quando siamo in fila non fa che fissare il ragazzo della biglietteria urlando “merda che maschio, che maschio, io me lo faccio, me lo faccio al volo”.
Io sono entrato all’Empire State Building che ero normale. Poi, di punto in bianco, mentre sono in coda, mi prende un bruciore fastidiosissimo lì.
Immaginate di dover urgentemente pisciare lava, di avere un catetere rovente infilato nel pisello. Mi guardo in giro, non ci sono toilette.
Ormai sono in fila, stringo i denti. Faccio il biglietto, cerco un bagno tra le biglietterie e i metal detector. Non c’è.
Per i metal detector c’è un’altra fila da fare. Inizio a cambiare posizione, mi appoggio su una gamba, poi sull’altra, mi piego in avanti. Adesso è come se mi si fossero dischiuse uova di ragno nel canale urinario, e i piccoli affamati stessero cibandosi di me.
Sei silenzioso, osserva la Betty, che hai? E io Niente, è l’aria condizionata, e intanto penso Troia puttana giuda, lercia vacca di quella troia puttana, cose così.
Fingo d’essere stanco, mi metto accosciato, e il bruciore peggiora.
Passo il metal detector, c’è la coda per il primo ascensore. Affronto la coda, prendo agonizzando il primo ascensore.
C’è la fila per il secondo ascensore., va bene facciamo la fila per il secondo ascensore. Se dio o chi per lui vuole, arriviamo finalmente alla terrazza panoramica.
Uno sogna fin dall’infanzia di salire sull’Empire State Building, arriva in cima al grattacielo delle sue fantasie di bambino, e la prima cosa che fa è correre alla toilette, spingere via un ragazzino ciccione e chiudersi dentro smadonnando.
Mi calo rapidissimo i pantaloni, chiudo gli occhi e stringo i denti. Getto fuori magma rovente, ma non fa troppo male, solo un po’ di bruciore, fin qui tutto bene, mi dico, fin qui tutto bene, fin qui AAAAAH, porca TROIAAAAA!
Esco dal bagno insultando gli dei con l’aria di chi ha appena partorito. Il ragazzino ciccione mi indica ai suoi genitori, io sparisco veloce dietro una pila di statue della libertà in finto argento. Fatti due passi, il bruciore e la sensazione di pisciata impellente tornano uguali a trenta secondi fa.
A questo punto, realizzo che la farmacia più vicina è circa novantadue piani più sotto.
Sempre insultando gli dei, striscio fra turisti che comprano statue della libertà in cartongesso, raggiungo i miei amici sul terrazzo esterno. Non sono uno che ama lamentarsi e rovinare la giornata a tutti, per cui fingo di niente. Per tre ore scatto foto di Downtown, del New Jersey, di Central Park, mi faccio immortalare con Brooklin sullo sfondo e un sorriso tiratissimo e sforzato, e ogni mezz’ora corro in bagno con una tarantola che mi cammina nel pisello. E se non avete mai passato tre ore con una tarantola che cammina nel pisello a novantadue piani dalla più vicina farmacia, non fatelo mai.
Gli altri non si accorgono granché della mia condizione. L’Orrido è impegnato a sputare e poi guardare col binocolo l’effetto di un grumo di saliva scagliato da quattrocento metri sui passanti. La Betty ha puntato per mezz’ora un ragazzino tedesco con tanto di genitori, ha continuato a ripetermi “merda, dai, non posso, avrà diciotto anni se li ha, non posso, non posso”, e alla fine ha ceduto. Ha chiesto al ragazzino di farle una foto con il Jersey sullo sfondo, si è messa in posa con la schiena inarcata, mostrando bene la sua quinta di reggiseno. Il ragazzino ci ha messo un sacco di tempo a scattare.
Lobo, intanto, passa tre ore a firmare autografi. A tutte le ragazze che gli chiedono se è vero che lascerà i Blur per dedicarsi solo ai Gorillaz, lui risponde di sì senza aver capito la domanda. Qualche ragazza con la maglietta dei Blur scoppia a piangere disperatamente.
E io corro in bagno ogni mezz’ora a pisciare benzina.

Quando finalmente usciamo dall’Empire State Building sono allo stremo, non ce la faccio proprio più. Appena vedo una farmacia gemo “Scusate un attimo, ragazzi, vado a comprare il dentifricio che l’ho finito” e mi ci fiondo dentro.
La farmacista è una strafiga orientale dai lunghi capelli neri lisci come seta, gli occhi color perla. Da erezione, a non avere il cazzo in fiamme.
Vado da lei tenendomi il pacco come un maniaco. Sto per esporle il problema, apro bocca, la richiudo.
Come cacchio glielo espongo, il mio problema?
La meraviglia orientale mi sorride, dice “can i help you?” con una voce tipo miele, io mi faccio forza e in un inglese da Alberto Sordi rispondo “sì, quando piscio mi brucia il pisello”.
La farmacista ha un attimo di sbandamento, forse cerca l’allarme collegato alla centrale di polizia. “What?”
Arrossisco, balbetto, le ripeto la frase cercando termini diversi, ma non riesco a trovare un verbo che non sia “to piss”. Come si dirà “orinare” in inglese, qual è una forma più educata di “burning cock”?
Dopo aver rischiato il linciaggio, esco dopo mezz’ora dopo con delle pillole rosse per la cistite, si chiamano Cystex. Non è un problema di cui soffrono le donne, la cistite?
Prendo due pillole rosse poco convinto. Vado a letto incazzato con l’universo, rannicchiato come un feto intorno al mio povero burnig cock.
O come cacchio si dice.

La mattina mi sveglio senza alcun bruciore. Vado in bagno cautamente, provo a pisciare con gli occhi chiusi e i denti stretti. Esce un classico getto mattutino, sontuoso e indolore.
Fin qui tutto bene, mi dico a metà getto, fin qui tutto bene, fin qui tutto bene, arrivo alle ultime gocce senza nessun dolore. Era proprio cistite.
L’unico uomo che soffre di un problema tipicamente femminile sono io, e dovevo venire a New York per scoprirlo.

Comunque, sono innamorato della meravigliosa farmacista. La amo proprio con ogni cellula. Domani torno alla farmacia e le mostro cosa sa fare il mio burning cock, penso sgocciolandomi con gioia, mentre il Lando Buzzanca che c’è in me esce fuori prepotente. Accendo a basso volume la tv in dotazione al nostro appartamentino di Midtown, si prende perfino Rai Uno. Guardo uno sceneggiato con Frizzi che fa l’avvocato e lo trovo bellissimo e avvincente, ora che posso di nuovo vuotare la vescica senza problemi.

L’appartamento a Midtown, bisogna dirlo, è stato una bazza senza precedenti. Ce lo ha prestato un fratello di sangue -parole sue- dell’Orrido, un amico nel giro degli Hell’s Angels attualmente impegnato in un motoraduno nel Wyoming. Gratis, ovviamente -che fratello di sangue è, altrimenti?-, a patto che dessimo da mangiare al suo gigantesco topo Gollum secondo precise istruzioni, a debita distanza dalla gabbia.
L’orrendo ratto ha la sua collocazione in un angolo del bagno; ci vogliono in media tre giorni per abituarsi a cagare con un demone dagli occhi rossi che ti guarda sbavando e graffiando contro le sbarre, poi è fatta. Anzi, il simpatico Gollum diventa una piacevole compagnia.
Sorcio schifoso a parte, l’appartamento non presenta altre controindicazioni. Cioè, se si eccettua il mezzo chilo d’erba che Lobo ha trovato nascosto nello sciacquone, il machete rinvenuto dalla Betty nell’armadio, e i piani di fabbricazione di una bomba infilati sotto il materasso. Se la polizia entra qui dentro, minimo ci sbatte in prigione senza processo e dà la chiave in pasto a Gollum.
L’appartamento è dotato di due stanze con altrettanti letti matrimoniali, il che ha comportato una complessa suddivisione delle camere. La Betty, in quanto donna, ha preteso la singola e si è impossessata del matrimoniale più grande. Lobo, che russa come una scrofa, è stato costretto a dormire nella vasca da bagno accanto a Gollum. Non ha chiuso occhio per le prime due notti.
Io ho dovuto dividere il secondo matrimoniale con l’Orrido. Giuro di aver invidiato il buon Lobo, relegato in vasca accanto al ratto.
Primo, l’Orrido dorme nudo. E’ dotato di una verga simile al cambio di un tir, per cui ogni volta che si gira nel sonno inizio a pregare che stia sognando motoraduni e solo motoraduni. Niente gare di magliette bagnate o film porno a base lesbo.
Secondo, l’Orrido è largo quasi quanto il letto matrimoniale. Mi tocca dormire su un fianco, difendendo con la forza i miei trenta centimetri di spazio.
Terzo, i problemi di sudorazione già citati: l’Orrido fa la doccia ogni quattro giorni per tradizione personale. Alla quarta notte accanto al mostro nudo sembrava di stare nella gabbia di Gollum.
Disperato, in quella quarta notte ho fatto un patetico tentativo.
Sono scivolato fuori dal letto- e l’Orrido, nel sonno, ha subito invaso i miei miseri trenta centimetri di spazio- e sono entrato in camera della Betty. Mi sono accostato al suo letto, ho sussurato: “Betty?”
Lei è balzata a sedere di scatto, ha acceso la luce sul comodino. “Cazzo vuoi?” mi ha chiesto allarmata.
(la Betty, ho scoperto in quella circostanza, dorme con la maglia di Carlo Nervo e nient’altro sotto)
Ho sorriso, le ho chiesto con tutta la dolcezza possibile: “Mi faresti dormire con te?”
Lei ha spalancato gli occhi. “Lajos, ma ti ci metti anche tu? Già sai quello che ho passato con il povero Lobo, ma insomma, credevo di potermi fidare di voi, di aver messo in chiaro come stanno le cose, e adesso te ne esci così, di punto in bianco…”
“… no, guarda, non hai…”
“Esci, Lajos, per favore. Facciamo finta che non sia mai successo niente.”
Sono tornato di là, depresso; l’Orrido aveva occupato tutto il letto, a pancia in giù e braccia larghe. Non mi è rimasto che accucciarmi sotto la sua ascella, confidando nello svenimento più che nel sonno.

Torniamo al giorno post-cistite.
Usciamo nella cappa d’afa newyorkese, diretti al locale del finto orgasmo di Meg Ryan in Harry ti presento Sally. Tappa obbligata, ovvio.
Io sono allegro e fastidioso, posso di nuovo andare al cesso senza timori, col mio magico Cystex in tasca. Arriviamo al locale -si chiama Kat’z Pastrami, per la cronaca-, una specie di tavola calda molto pittoresca. Ci sono salami appesi al soffitto, vecchi cartelli dei tempi della guerra -cose tipo “spedizioni di salami a domicilio- manda un salame al tuo ragazzo sotto le armi!”- e un centinaio di foto alle pareti. Il proprietario con Meg Ryan e Billy Crystal, il proprietario con Jerry Lewis, Bill Clinton seduto al tavolo d’angolo, Rudolph Giuliani al tavolo d’angolo…
Ci mettiamo in fila aspettando pazientemente un posto libero, ma poi una cameriera strilla vedendo Lobo, fa quasi cadere il suo vassoio. La vediamo sparire nel retro, e un secondo dopo esce il proprietario con un gran sorriso, abbraccia Lobo in una stretta da orso, poi inizia a farneticare in un inglese tutto suo “mister Albarn, mister Albarn, venga, venga, liberiamo subito il tavolo a lei e ai suoi amici”. Lobo, come sempre, sorride e fa di sì con la testa.
A quel punto, facciamo le merde fino in fondo.
“Si potrebbe avere il tavolo del finto orgasmo di Meg Ryan?” domanda la Betty, la nostra linguista ufficiale “Sa, quella del film…”.
Mister Katz non ci pensa due volte, fa spostare una coppia e ci sistema nel mitico angolo del finto orgasmo. Poi se ne va dando pacche sulle spalle a Lobo e canticchiando la canzoncina dei Gorillaz, “I’m ever happy / i’m feeling down…”
Ci sediamo sghignazzando. L”Orrido scorre il menù, poi ordina un pastrami dello spessore di quaranta centimetri, due fette di pane separate da strati e strati di rostbeaf. Inevitabilmente, trillo felice al cameriere “Per me quello che ha preso il signore!”.
Addento il mio pastrami di quaranta centimetri urlando alla Fantozzi “E questo me lo pappo io!”.
Al primo morso mi si apre un dente.
Se capita ad Abatantuono in Marrakech express, fa ridere un casino. Dal vivo, a un oceano di distanza dal mio dentista, per niente.
Un dente del giudizio, l’ennesimo bastardo dente del giudizio.
Andare da un dentista newyorkese non se ne parla, mi salta tutto il budget della vacanza. Finisco il pastrami incazzato come una pantera, masticando dall’altro lato, e poi il proprietario salta fuori con una macchina fotografica urlando “Mister Albarn, smile, please”. E ci fa mettere in posa sempre canticchiando “I’m never happy / i’m feeling down…”
Così io, Lobo, la Betty e l’Orrido finiamo sulle pareti del locale di Harry ti presento Sally, sotto un cartellino che dice Damon Albarn -cantante dei Gorillaz.
(i Blur non sono conosciuti, al mitico Kat’z delicatessen)
Solo che io, nella foto, ho un sorriso tiratissimo.

Quattro giorni di aulin per far passare il dolore, tre bustine al giorno, colazione, pranzo, cena.
Alla quarta notte, mentre sto cercando di respirare accanto al mostro nudo, mi sveglio con la solita fitta atroce alla mascella. Smadonno silenziosamente cinque minuti, mi alzo senza svegliare l’Orrido, vado a cercare la solita bustina di aulin nel mio zaino.
Sbarro gli occhi: finito. Niente aulin. Guardo l’ora: le tre di notte.
Devo stare con la mascella squartata fino all’apertura delle farmacie? E poi esisterà l’aulin, qui a New York?
Comincio a pensare, in piedi accanto all’acquaio pieno di piatti sporchi.
Avranno dell’aulin, i miei tre compagni di viaggio?
Lobo no, lui non ha mai nemmeno un raffreddore. L’Orrido, figurarsi: l’unica sostanza curativa che riconosce come tale va scaldata, sbriciolata, mischiata al tabacco e infine fumata.
Schiocco metaforicamente le dita, nel buio dell’appartamento di Midtown. La Betty si è portata dietro un ospedale da campo, ha una farmacia intera sul comodino. Si è presa dietro anche un test di gravidanza, perché, parole sue, “metti che ne ho bisogno, come si dice, in inglese, test di gravidanza?”
Scivolo nella stanza della Betty, in punta di piedi.
Lei dorme a faccia in giù, abbracciata al cuscino. Le luci dalla strada filtrano attraverso le tapparelle, quel tanto che basta per rendere visibile il reparto di pronto soccorso allineato sul comodino. Eccola lì la scatola magica, aulin, la riconoscerei tra mille.
La apro lentissimamente, prendo tre, hmm, quattro bustine, non si accorgerà nemmeno che mancano, figurarsi, perché una persona sana -vaffanculo- dovrebbe mettersi a contare le bustine di aulin?
Sto per sgattaiolare fuori, quando un’auto della polizia passa in strada a sirene spiegate. La Betty socchiude le palpebre, mi vede accanto al suo cuscino e caccia un urlo.
“Lajos, cazzo, adesso basta!” strilla nel cuore della notte, gli occhi fuori dalle orbite ” Se non controlli gli ormoni fatti una doccia fredda, porca eva! Ti ho già parlato chiaro, mi pare!”
Sto balbettando “Non è come pensi”, quando una zaffata di fogna annuncia l’entrata dell’Orrido, nudo e assonnato. “Bambini” ruggisce “se volete fare le vostre cose, cercate di non svegliare chi sta nella camera accanto, va bene?”
La Betty ammutolisce di fronte al sovrumano nunchacku da ninja tra le gambe dell’Orrido. Temo che ci guarderà entrambi con occhi diversi, da domani in poi.

Le quattro bustine tranquillizzano il mio dente per un giorno e mezzo.
Pomeriggio, siamo al centro esatto del ponte di Brooklin a fotografare la gigantesca scritta Watchtower sul palazzo dall’altra parte del fiume, quando i nervi della mascella cominciano a urlare tutti insieme.
Io, a questo punto, sono isterico. E senza aulin a portata di mano.
Siccome sono ancora e sempre quello che non vuole rompere i coglioni, aspetto che la Betty abbia finito di cercare la panchina di Manhattan, che si convinca dopo mezz’ora di essere sul ponte sbagliato, che i miei tre compagni di viaggio finiscano di fare foto, e una volta sulla terraferma biascico “vado a comprare il filo interdentale”. Mi fiondo in un’altra farmacia.
Nessuna bellezza orientale stavolta, solo una cicciona che al mio farraginoso “toothache, toothache” balbettato tenendomi la mascella, mi sbatte in mano un antidolorifico alla benzocaina. Lo nascondo in tasca, torno a unirmi agli altri.
Prendiamo il metrò, scendiamo al museo d’arte moderna. Ancor prima di fare il biglietto corro in bagno, mi chiudo dentro, e finalmente sperimento questo nuovo e misterioso antidolorifico. Mettere in bocca e sputare, c’è scritto. Io sono a rota, ormai, me lo ficcherei anche nello sfintere se servisse a far passare questo CAZZO di mal di denti.
Metto un po’ di benzocaina sulla lingua, e a momenti svengo per lo schifo; è come farsi uno sciacquo con diecimila di super. Giro un po’ quella miscela da motorini sulla gengiva dolorante, sputo. Esco dal bagno con mezza faccia anestetizzata, il labbro addormentato, un sapore orrendo in bocca, però non sento più dolore.
(non sento niente di niente, in verità)
Solo, pronuncio a fatica una decina di consonanti.
L’entrata è a offerta libera, c’è una cifra suggerita che nessuno rispetta. “Non facciamo i soliti italiani”, ci diciamo, “diamo dieci dollari in quattro”
Dieci dollari in quattro ci pare dignitoso. Prepariamo i soldi, e davanti a noi c’è la classica famiglia italiana che hai il terrore di incontrare all’estero, uno stereotipo uscito pari pari dai film dei Vanzina. Il padre ciccione con la maglia di Totti sghignazza, “Gliela do io la cifra consigliata”, la moglie grassa ride, i figli ciccioni con le maglie di Totti ridono pure loro.
Il ciccione capofamiglia lascia alla cassa un centesimo, guarda con aria di sfida il ragazzo che stacca disgustato quattro biglietti, entra soddisfatto della sua furbata dicendo “Eh, se c’è offerta libera, l’offerta è libera.”
Noi entriamo fingendoci spagnoli.

Lobo si è cautelato dalle cacciatrici di autografi con occhiali da sole e cappellino calcato in testa, che si è stancato di essere scambiato per Damon Albarn, dice.
Infatti fa tre passi oltre le biglietterie, quando uno dei due piccoli Totti lo guarda e urla “Papà, papà, guarda! Beckham, c’è Beckham!”
Zero secondi dopo il povero Lobo è costretto a scrivere “David Beckham” sulle maglie giallorosse e a giurare in finto inglese che passerà presto alla Roma con un contratto a vita. Si raduna una piccola folla che gli chiede del Manchester United, di sua moglie Posh Spice, del piccolo Brooklin, Lobo come al solito risponde annuendo con sorriso ebete. Decidiamo di lasciarlo al suo destino e di venire a riprenderlo all’uscita.
Lo preferivamo come sosia di Kurt Cobain, Lobo, anche perché i Blur e i Gorillaz piacciono solo a lui, a noi altri tre fanno schifo. A pensarci bene ci fa schifo anche Beckham; nella classifica dei giocatori più sopravvalutati del mondo è secondo solo a quel cesso di Anelka.
Comunque, ho mezza faccia anestetizzata ma niente dolore; parlo a raffica nei corridoi gelidi di aria condizionata, azzardo commenti su Pollock, su Christina’s world.
La Betty mi guarda strano. Sarà che mi ritiene un maniaco, scruta in modo diverso l’Orrido, vabbè, chiariremo. Solo che -beh, tu guarda- tutti quelli che incrocio mi guardano strano.
Passo davanti a un tipo della sicurezza e quello mi squadra allarmato. Mette mano all’auricolare, comunica a voce bassa con qualcuno.
A questo punto, perplesso, abbranco l’Orrido. “Senti. Ho qualcosa di strano in faccia? Ho l’aria da maniaco? Che cos’ho? ”
Lui mi squadra, calmo. “Lajos, non so come dirtelo, non so che problema hai, ma …”
“Ma?”
“Aliti benzina.”

Usciamo dal museo prima che mi scambino per un bonzo.

Insomma, tutto questo per aver realizzato un desiderio di terza fascia come la visita all’Empire State Building.
A questo punto, io ho il terrore di vedere avverati dei sogni di categoria superiore.
Metti che divento scrittore: di sicuro vengo ucciso da un fan impazzito.
Puta caso vengono gli Who in concerto: Roger Daltrey sbaglia a roteare il microfono e mi strozza con il cavo.
Miracolo, il Bologna vince l’ottavo scudetto: certamente vengo calpestato dalla folla impazzita.

Del resto con ogni desiderio, diceva il saggio Springsteen, arriva sempre una maledizione.