Gianluca Barbera, Viaggiare che bellezza

Benché esordiente, Barbera è un professionista della letteratura, nel senso che coi libri ci lavora, essendo l’ideatore della collana di narrativa “Indicativo Presente” dell’Editore Sironi, insieme a Giulio Mozzi. E questa professionalità, di uomo abituato a lavorare -in tutti i sensi- con le parole, si sente, nello stile asciutto dei suoi racconti e nell’uso di una lingua levigata e misurata. Questo resoconto di un disgraziato viaggio in macchina nei paesi dell’est riesce a tenere un registro sottilmente ironico per tutta la durata del testo, malgrado racconti di poliziotti ubriachi, assalti di bande di teppisti, doganieri corrotti e furti continui. Uno stralcio di esperienza che è un tipico esempio dell’ingenuità dell’italiano all’estero e allo stesso tempo una prova della sua intramontabile capacità di riderci sopra, malgrado veramente tutto.

VIAGGIARE CHE BELLEZZA


A mezzanotte scade il visto. Se per quell’ora non saremo fuori dai confini ucraini, prevedo guai.
Guardo la cartina ma non mi raccapezzo. Le strade non sono segnate o, se lo sono, non corrispondono alla realtà o finiscono nel nulla. Forse non è aggiornata.
Insomma, dove cazzo devo andare!, strilla Davide a ogni bivio.
Bella domanda!
Siamo venuti per vedere Nikopol’, il posto dove è nata la sua nonna materna. E anche per spassarcela un po’. Ma le ragazze non erano disponibili come ci avevano detto.
Per dirla tutta, a Cracovia avevamo rimorchiato due ragazze californiane in cerca di emozioni. Ma giunti qui ci hanno mollato per due biondi ucraini.
La solita fortuna.


A una fermata d’autobus, accanto a un gruppo di case, c’è un poliziotto con una valigetta in mano.
Accosta, dico. Chiediamo a lui.
Scendo e faccio per avvicinarmi. Ma quello posa la valigetta, mi dà le spalle e inizia a pisciare contro un muro.
Quando torna a girarsi, mi rifaccio avanti. Ma il suo alito mi stende: pura vodka!
Troppo tardi per fermarmi. Con la cartina in mano, un po’ a parole e un po’ a gesti chiedo la direzione per Uzgorod.
Mi fa capire che è di strada. Vuole salire, ci guiderà per un tratto.
L’occhio mi cade sul pistolone che sbuca dalla fondina. Come rifiutare?
Dico a Davide di passare dietro. È più grosso di me ed è cintura marrone di judo: meglio sia lui ad avere le mani libere.
Mi metto al volante. Il poliziotto chiede una sigaretta. Gliela offro, ci mancherebbe. E gliel’accendo.
Tra un tiro e l’altro, spiega di non poter soffrire gli italiani perché sono mafiosi.
Cominciamo bene.
Di colpo avverto un dolore acuto alla spalla destra. Porca troia, la brace della sua sigaretta si è staccata e mi sta bucando la manica della maglietta!
Mi trattengo a stento dal gridare. Abbasso il finestrino elettrico e me ne libero. Mi accorgo che la punta del naso del poliziotto è cosparsa di cenere: manco s’è accorto di avervi urtato con la sigaretta!
Bisogna mantenere la calma.
Attraversiamo un paese dopo l’altro: mai che dica di voler scendere. Che si sia scordato dove stava andando?
A ogni paese chiediamo: Qui? Ma lui scuote la testa e riprende a dare addosso agli italiani.
Finalmente fa segno di fermare. Inchiodo.
Apre la portiera e posa i piedi a terra. Ma non si regge e cade di schianto. Scoppiamo a ridere.
Tiro la portiera e parto in sgommata. Alzo gli occhi e dallo specchietto vedo che si rialza e impreca contro di noi agitando il pugno.
Tanti saluti, bello mio!
Accendo lo stereo e iniziamo a dimenarci al suono dei Mau Mau, sprizzando adrenalina da tutti i pori.


In uno spiazzo a lato della strada c’è una specie di bar coi tavolini fuori. Ci avviciniamo.
Scusate, dico.
Alcuni ragazzi si alzano e vengono verso di noi. Uno di loro gira intorno alla macchina e fa segno di scendere. Perdiamo benzina. Deve esserci un buco da qualche parte del serbatoio. Benedette strade ucraine!
Uno magrolino s’infila sotto la macchina. Un minuto dopo sguscia fuori, si rialza e scuote il capo: Ahi ahi, va sostituito il pezzo. Ma qui niente ricambi, bisogna andare in Romania.
Come in Romania?, faccio. Non è proprio dietro l’angolo.
Gli sventolo sotto il naso venti dollari.
Sicuro che non si possa far nulla?
Si gratta una guancia. Poi si allontana facendo segno di aspettare. Torna con un fil di ferro e s’infila di nuovo sotto la macchina.
Dopo qualche minuto si tira su soddisfatto e col dorso delle mani scuote via la polvere dalla maglietta e dai calzoni.
Mentre gli allungo la banconota, mi domando quanto durerà la riparazione.
Si accettano scommesse.

A Cernovcy chiediamo indicazioni a un ragazzo piccoletto seduto su un marciapiede, intento a fumarsi una sigaretta.
Vi ci porto io al confine, fa.
Lo facciamo salire.
Sarebbe simpatico, non s’interessasse troppo alla macchina.
A un certo punto fa segno di rallentare. Con la mano saluta un gruppo di ragazzi fermi a un crocicchio, in sella ai loro motorini.
In quel suo fare, qualcosa non torna.
Fermatevi qui, dice poco dopo. Aspettate.
Salta dentro una casa attraverso una finestra. Poco dopo esce per la stessa la finestra con uno spilungone magro e torvo.
Mio cugino, dice. Viene con noi.
Mentre era dentro, ho pensato di mollarlo lì. Ma non ho fatto a tempo a decidermi.
Arriviamo al confine che sono le sette. C’è una lunga coda.
Se la volete evitare, dice, conosco un sistema.
Una coda, da quelle parti, significa ore e ore immobili. Ma non sappiamo se fidarci.
I due cugini scendono. Li vediamo parlottare con una guardia di frontiera e poi tornare.
Per cinquanta dollari vi fanno passare. D’accordo?
Tentenniamo.
Vieni con noi, dicono a Davide. No problema.
Ok, fa lui.
S’incammina con loro e sparisce dietro a un casamento. Sento bussare a un finestrino. Tiro giù. Un uomo si china:
Italiano, attento a Ali Baba. Lui è un ladro.
Sbianco.
Poco dopo Ali Baba torna solo. Dice che il mio amico è con suo cugino: ci aspettano oltre il confine.
Sale in macchina e dice di infilarmi nello spiazzo che poco più in là si apre dentro un boschetto. Mi avvicino all’imboccatura. Noto delle figure nascoste dietro gli alberi. Faccio rapidamente marcia indietro fino a rimettermi in fila. Poi allungandomi apro lo sportello dalla parte di Ali Baba e lo spingo fuori.
Vaffanculo!, grido. E mi barrico dentro.
Ali Baba picchia al finestrino: Faccio male a fare così, il mio amico aspetta oltre il confine, finirà male se non andiamo.
Ma ecco Davide, incolume.
Come lo scorge, Ali Baba si dilegua.
Appena dentro gli dico di abbassare la sicura.
Dove ti eri ficcato?, faccio quasi urlando.
Cazzo ne so? Mi hanno portato in campagna e mi hanno detto di aspettare. Dopo un po’ mi sono scocciato e anche insospettito. Per fortuna ricordavo la strada.
Senti che mi è successo, dico. E glielo racconto
Diamo uno sguardo verso il boschetto: Ali Baba e la sua gang sono là che confabulano.
Un manipolo di ragazzini si avvicina. Si assiepano intorno alla macchina e chiedono soldi, battendovi sopra le nocche. Poi cominciano a ululare: Wuuuuu buuuuu. Un frastuono assordante.
Arriva una donna a scacciarli. Ma dopo un po’ tornano alla carica: Wuuuuu buuuuu.
Per coprire le urla, facciamo andare un nastro dei Pink Floyd, volume a manetta. Chiudiamo gli occhi.
Poco dopo li riapriamo: i ragazzini sono scomparsi, ma dal boschetto sono usciti Ali Baba e i suoi, tra cui una specie di montagna di ciccia. Si sono avvicinati alla macchina. Dànno pugni sul cofano, sui vetri, chiedendo soldi. Fanno zac!, passando l’indice sotto la gola. Scuotono la macchina.
Tirate giù il finestrino o vi scaravoltiamo, minacciano.
Davide lo abbassa e si becca un ceffone da una mano slanciatasi per l’apertura. Richiude in fretta.
La coda è immobile da parecchio. Nel frattempo si è ingrossata. Siamo chiusi da due file di macchine. Nessuno che scenda a darci una mano o avvisi la polizia di frontiera, che sta a cinquecento metri, oltre la curva, appena dietro gli alberi. Ogni tanto quelli tornano nel boschetto per un conciliabolo. Poi, di nuovo all’assalto.
Che si fa?, domanda Davide.
Dobbiamo aprirci un varco tra le macchine, dico.
Ma eccoli di nuovo alla carica. Questa volta sono furiosi. Tirano fuori grandi coltelli.
Non facciamo scherzi!, sbotta Davide.
Abbassa di un dito il finestrino e allunga venti dollari.
Va bene così?
Intascano e si ritirano nel boschetto.
Bravo, faccio. Ora che ci hanno preso gusto, vedrai!
Difatti dopo un po’ ricompaiono. Il ciccione chiede altri venti dollari.
Non pensarci nemmeno!, dico a Davide.
Non mi dà ascolto.
Finalmente la coda si muove. Con una rapida manovra mi assicuro una via di fuga. Quelli però non tornano: non perché siano appagati ma perché ora le file procedono con regolarità e siamo in vista della polizia di frontiera.
È la prima volta che mi commuovo alla vista di un poliziotto.


Mostriamo i passaporti. Il mio è a posto, dicono, posso andare. Quello di Davide no. Deve tornare a Uzgorod per farselo regolarizzare.
Figuratevi!
Gli raccontiamo della banda di Ali Baba, ma ribattono che è un nostro problema.
Un modo per risolvere la faccenda ci sarebbe, fanno però capire. Al visto di Davide manca un timbro. Sborsando una somma adeguata, si può rimediare: cinquanta dollari, per l’esattezza.
Mai dubitato fossero persone sensate.


Il giorno dopo siamo a Budapest. Parcheggiamo ai piedi dei colli su cui sorge Buda, la città fortificata, e ci facciamo un giro.
Ma al ritorno la macchina è scomparsa: rubata!
Non so come, mi riesce perfino di restare calmo.
Fermiamo una pattuglia della polizia e ci facciamo condurre al comando per la denuncia.
Qui è pieno di italiani cui hanno rubato qualcosa.
È bello scoprire di avere qualcosa in comune con loro.


Per tirarci su, la sera entriamo in un night nel centro di Pest. Tante belle ragazze ci vengono intorno, ordinano da bere e siedono accanto a noi. Poi se la filano e al loro posto arriva il conto: una cifra spropositata.
Protestiamo.
Dalla direzione escono due energumeni che siedono davanti a noi e dicono: Pagate!
Davide azzarda una protesta: uno di loro prende una sorsata di vodka e gliela sputa in faccia.
Faccio per dire qualcosa anch’io, ma il suo collega fa lo stesso con me. E di nuovo: Pagate!
Svuotiamo i portafogli e attingiamo alle riserve segrete cucite dalle nostre mamme nella tasche delle mutande.
Quando usciamo siamo praticamente senza un soldo. Davide anche senza documenti, visto che li aveva lasciati nella macchina.
Mi guarda e domanda:
Ora che si fa?
Andiamo a Lourdes a farci benedire, rispondo.