Francesca Ramos, Domenica

Quando in una casa editrice ti passano dei romanzi di esordienti da leggere e valutare, spesso è un compito gravoso. Perché molti sono brutti, oppure si rivelano interessanti ma hanno bisogno di un grosso lavoro di riscrittura o sono semplicemente troppo acerbi per regalarti una lettura coinvolgente. La volta che ti capita fra le mani un libro bello, convincente, che ti appassiona da subito come i romanzi che compri per scelta tua in libreria, la sensazione è quasi di miracolo. A me è successo col primo romanzo di Francesca Ramos, che verrà infatti pubblicato il prossimo anno. Da quel libro, ecco un estratto inedito, un capitolo che non rientrerà nella versione in libreria, ma che ha la forza e la dignità di un racconto a se stante: il doloroso addio di una bambina a suo padre. 

DOMENICA

Nel 1972, dice il mio Atlante de Agostini, i Vietnam erano due, la Russia una sola, l’Angola portoghese e il Congo belga, io andavo in prima media e mio padre moriva senza salutarmi in una clinica dove di solito si va per venire al mondo. A che mi serve un atlante del ‘72? a ricordare quanto poco fosse importante per il resto del mondo la tragedia che ha manomesso la mia famiglia. C’è storia e Storia. I bolscevichi, i gulag, i khmer rossi, una nuova parola: morbo di Hodgkin, le lotte per l’autodeterminazione, la morfina, la Rivoluzione Culturale, il coma, la DDR, il razzismo nei ghetti, le ore contate, i diritti dell’uomo.
Milioni di morti.
Più uno.
Il mio primo,
il mio immenso,
incalcolabile uomo morto della mia vita.
Ho troppe cose da ricordare, troppe cose con la data. Bisognerebbe poter dimenticare giorni che non sono affatto qualunque: 8 ottobre 1972 morte di mio padre, 11 ottobre funerale, 15 settembre compleanno di papà ma a che cosa serve il compleanno di un morto? Cose con la data. Non le sopporto.
In ogni casa dove ci sono dei bambini c’è sempre una parete dove l’altezza che cambia viene misurata con un segno di matita. Ogni bambino ha la sua, in ognuna c’è la storia di una crescita sorvegliata centimetro dopo centimetro. Ed è lì che sto nascosta, accanto al mio grafico ancora troppo basso, lì che vengo a sapere. La maniglia mi arriva sopra la testa, la parete contro la mia guancia è rivestita di carta a righe. Il mio orecchio fruga tra le tende oltre la porta socchiusa. Il divano azzurro oggi accoglie un’ambasciata triste, mio padre è morto questa mattina e una donna – non so più chi – viene ad avvisare la nonna. Sarà soltanto questa sera che mia madre, marcita di pianto e di sonno, troverà il coraggio di dirlo ai suoi figli. È domenica e qualcuno in tutta fretta viene a casa nostra e ci carica in macchina (mio fratello cavato a viva forza dal letto dove dormiva beato). Come due cani di pezza gettati sul sedile posteriore partiamo per una gita dal sapore sinistro. Il pomeriggio è talmente carico di svaghi da somigliare a un carnevale isterico e grottesco; su e giù per la Brianza, un circo equestre di amici e sentimenti rende stucchevoli e interminabili le ore che ci separano da nostra madre che è ancora all’ospedale e che ci raggiungerà a cose fatte, carte firmate. Per tutto il giorno ho la sensazione di stare ingannando mio fratello ma non riesco a dirgli nulla; in questa giostra forzata il solo che non sa cosa stia succedendo è Nicola, ma forse anche per lui le campane suonano a morto e lo zucchero filato in cui siamo avvolti anche a lui dà la nausea. L’impotenza di essere piccoli e non poter saltare in macchina e sbronzarsi con un amico o scendere le scale e camminare da soli fino allo stremo fa sì che restiamo docili vittime di tanto affetto, di un’estenuante giornata che ci ha trovato svegli già orfani.
Tra le tende un bisbiglio. Mia nonna, che preferisce mio fratello a me, dice: soffrirà di certo più il bambino. Già si mercanteggia il dolore, già si scommette su chi per primo chiederà lo stato di calamità. Ma io dietro la porta sono già uno sfollato, un rifugiato, un profugo. Una bambina che sa troppo e troppo presto. Un foglio strappato al calendario.
Sera. Arriva mia madre, i suoi occhi sono due paludi, la sua voce – una bolla d’acqua. Io le vorrei dire lo so già ed evitarle quel poco che è possibile ma la voce non mi esce da nessuna parte. Ciò che ha da dire lo dice nel modo più semplice: papà è volato in cielo, poi si scioglie in un fradicio silenzio e guardandola, non so perché, mi viene in mente una piscina vuota con delle foglie secche sul fondo.
In quella piscina farei volentieri un tuffo di testa.

Siamo in macchina e andiamo a trecentocinquanta chilometri di distanza per seppellire mio padre, così che la distanza sarà reale e non solo metafisica. È buffo ma mio fratello di quel viaggio ricorda solamente nostro cugino Piero che guidava mangiando una meringa – chissà perché una meringa in quelle circostanze – che poi gli si è rovesciata sui pantaloni. Nicola avrebbe voluto ridere ma non sapeva se essere autorizzato a farlo. Non rise anche se ne aveva maledettamente bisogno. Ancora oggi sembra che non sia arrivato per mio fratello il momento di ridere davvero.
Papà è sepolto nella cappella di famiglia del ramo di mia madre, accanto allo zio Enrico che un giorno ingoiò una pipa per non essersi spostato in tempo al passaggio del suo amico Benelli, in sella a una sua moto. Avevano scommesso su chi dei due si sarebbe spostato per primo e nessuno l’aveva fatto; erano finiti all’ospedale ma entrambi avrebbero vissuto ancora a lungo. Alcune immagini di quei giorni sono sfocate, come in uno di quei filmini che ci ritraggono sorridenti sul Lago di Carezza dove io cammino a torso nudo coi pantaloni alla zuava e una nuova piccozza con la stella alpina incisa sopra. Sono proprio io? Dov’è adesso la mia piccozza e dov’è mio padre? Fin dall’inizio tutto mi è stato nascosto: la malattia, l’ospedale, la morte, il funerale e la sepoltura nel luogo che fino allora era la città della nonna, delle vacanze, della canasta, dei castelli di sabbia, e d’ora in poi anche la casa del papà, fredda e inammissibile; la sua casa, non più la nostra. Per la prima volta mi accorgo che una famiglia possa vivere divisa ma non noto l’errore di fondo: non tutti siamo vivi.
La radio è di quelle imponenti di legno rosso e lucido e dentro ci sono tutte le stazioni del mondo; il nonno la fa parlare seduto sulla sua poltrona rossa anche lei. Solo lui la può toccare ma a noi non viene neppure in mente di sfiorare quelle manopole d’avorio che basta accarezzarle perché la stanza si accenda. Il nonno è il capitano della radio. Alto un metro e novanta e quasi cieco sta tutto il giorno sulla poltrona accanto all’apparecchio come se la casa avesse bisogno di un timoniere sempre ai comandi, e forse e davvero così: quando il nonno – tra soli sei mesi – non sarà più al suo posto la casa perderà la rotta e anche la nonna finirà col seguirlo facendo quasi impazzire mia madre.
Te le sei lavate le orecchie, signorina? La Dina, la donna che è in casa di mia nonna da trent’anni, getta un secchio di normalità su una mattina per niente normale dove – senza che nessuno mi dica di stare alla larga dalla radio – arrivo addirittura a leggere i nomi delle città scritti in piccolo sulla mascherina: New York, Londra, Parigi, Helsinki (dove sarà mai questo posto?)
Le orecchie?… me le tocco per verificare che si parli proprio di loro.
Sì, proprio quelle due lì.
Non sono mica da lavare tutti i giorni!
Finché sei in questa casa, sì.
La mamma non me lo ha detto.
Forse se ne sarà dimenticata.
Ma io ho la tosse!
E che forse respiri con le orecchie, tu?
A me fa male bagnarmi.
Senti un po': se vai avanti così il giorno che dovrai prendere marito ce le avrai così nere che nessuno ti vorrà!
Tanto io il marito non lo voglio!
Aspetta a dirlo. Vedrai quando sarai più grande.
Ho detto che il marito io non ce lo avrò mai!
Come sarebbe? Vuoi rimanere zitella?
Che vuol dire zitella?
Senza marito.
Sì, sarò una zitella senza marito. Voglio imparare a usare la radio adesso, dico pragmatica, ponendo fine a discorsi troppo ipotetici in un momento in cui il futuro immediato è risalire in macchina e gettarci in pasto allo sgomento.
Puoi chiedere al nonno se te lo insegna, dice la Dina.
Ma dove sono andati tutti? ecco la Domanda.
Sono usciti ma tornano presto.
Anch’io volevo uscire…
Vedrai che tornano subito. Vuoi venire con me in cucina?
No, sto qui vicino alla radio.
Spenta.
Giù le zampe eh? mi fa cenno con lo straccio.
Sì, sì. Lo so.
Poi mio fratello torna a casa coi pantaloni lunghi e la faccia scura come la sua giacca. L’ho visto vestito così solo nel giorno della sua comunione. Sfila in silenzio dalla porta insieme a tutti gli altri che prendono posto nel salotto secondo una strana geometria: ognuno di loro è a distanza di sicurezza da noi piccoli, hanno paura delle nostre domande, paura che esplodiamo, che il contegno generale venga sconvolto da un infantile cataclisma tipo: che fine ha fatto il papà? Cos’è questa pagliacciata?! Ma alla nostra età non sappiamo cosa significhi pagliacciata e dove sia il papà lo sappiamo fin troppo bene. Ci è sufficiente sapere che non tornerà. Dove sia andato ha poca importanza. Cerco la mamma con lo sguardo e con i gomiti; nessuno mi parla, stanno tutti in piedi, a disagio. Mi faccio largo tra consanguinei che non ho quasi mai visto, gente venuta da Roma, da Firenze, da Milano. Mi aggrappo alla tasca di una giacca.
Perché non mi avete svegliato? chiedo allo zio Puccio (che nome inadeguato per uno che torna da un funerale).
Dormivi così bene… la mamma ha preferito che stessi a casa.
Balle.
Non chiedo – perché lo so – dove siano stati tutti mentre lasciavano che la mia giovane saliva scivolasse tranquilla da un angolo della bocca sul cuscino di un sacrosanto sonno infantile mentre loro sgattaiolavano di buon mattino per sotterrare mio padre, quasi l’avessero rubato. I bambini dormono, è la loro forza. Oggi sono felice di non aver partecipato all’occultamento dell’unico uomo della mia vita.
Dov’è la mamma? chiedo, di lei posso chiedere.
Adesso viene. Ma lei viene chissà quando ed è ormai evidente: insieme al papà è morta anche lei; lo rimarrà a lungo, il tempo necessario per risorgere dalle macerie, il tempo che impiega un ferito a recuperare le forze, lottando con la disperazione, i tranquillanti, uno strazio che gli fa invidiare chi ha già perso la vita e con essa qualsiasi sensibilità al dolore.
In cucina la Dina prepara il caffè per tutti. Non è questo uno di quei funerali all’americana in cui tutti si rimpinzano di dolci e caffè annacquato ma la mamma e i nonni non tornano e in salotto nessuno sa come comportarsi. Lo zio si è affacciato in cucina e ha detto: Dina, per cortesia ci faresti un po’ di caffè? Subito dottore, aveva risposto rianimata dal poter fare qualcosa di utile.
Io sto seduta sulla credenza e la guardo mentre fa il caffè, lei mi sorveglia con uno sguardo che mi restituisce tutta la pietà che provo per me stessa. La disputa sulle mie orecchie è già un capitolo chiuso, sembra un secolo fa quando si poteva ancora parlare di cose come orecchie da lavare.
Che si mangia oggi? chiedo, tanto per cambiare un discorso mai cominciato.
Arrosto con patatine arrosto.
Tutto arrosto, insomma.
Già. Versa l’acqua minerale nella moka perché l’acqua di Pesaro è imbevibile, sembra raccolta da una piscina.
Credi che andremo all’orfano-trofio?
La Dina sussulta e sparge un po’ di polvere di caffè sul tavolo.
Ma cosa dici?! Lì ci vanno gli orfani! raccoglie col dito la povere nel palmo della mano e la ributta nel filtro.
E noi non siamo orfani? Orfani-di-padre.
Gli orfani sono quelli senza i genitori, tutti e due, hai capito?
Mi chiedo come si potrebbe mai sopravvivere senza entrambi i genitori e per qualche secondo mi sento quasi fortunata. Per qualche secondo soltanto.
C’è del latte? Vorrei un po’ di latte freddo, chiedo.
Te lo do subito, lo vuoi anche un bel biscotto?
Sembra rincuorata, credo darebbe qualsiasi cosa pur di farmi star zitta. Che tocchi proprio a lei dover dire certe cose alla nipote della Signora? Con tutta quella gente di là che le è parente, la bambina ha scelto proprio lei per inaugurare la sua vita da orfana, con un bicchiere di latte in mano e le patate nel forno ancora freddo. Anche le patate aspettano che la mamma torni. Perché tornerà, vero?
Allora, lo vuoi il biscotto?
Hm, non so.
Sto pensando che appena la settimana scorsa nel mio primo giorno di scuola ho detto, quando la maestra me l’ha chiesto, di avere due genitori e invece lui è morto proprio il giorno dopo. Ora penseranno che sono una bugiarda.
Come sarebbe a dire non so? – mi scuote la Dina – o lo vuoi o non lo vuoi! Subito si accorge del tono troppo brusco, non vuole certo essere severa con me. Dio, come potrebbe esserlo?
Dicevo… non ti va un bel biscottino da inzuppare nel latte? e mi accarezza la testa con rustica tenerezza.
Nel latte freddo il biscotto non si squaglia, ci mette troppo.
Ma noi non abbiamo mica fretta, no?
Sto pensando a qualcosa, ma a cosa?
Tieni, quello a forma di fiori che ti piace di più.
Allungo la mano e accetto il biscotto. Meglio prendere al volo ciò che d’ora in poi mi sarà destinato. Per la prima volta compio scientemente un’azione senza desiderarlo, mangio un biscotto che non mi va per fare contenta la Dina, così come non nominerò mai più mio padre davanti alla mamma o a mio fratello. Lo decido tutto in una volta: d’ora in avanti farò tutto il possibile per non fare soffrire o arrabbiare più nessuno. Se non ero stata io la causa di tutto quell’orrore potevo forse esserne il rimedio.
Mi sbagliavo.
Buono il biscotto! Anche il latte è buonissimo, dico. Poso il bicchiere e balzo giù dal mobile.
Dove vai bambina mia?
In bagno.
A vomitare.

È finita. Si torna a casa. In tre invece che in quattro. Non saremo più come tutti gli altri. Non tutti certo ma a me sembra che chiunque stia meglio di noi, persino la zingara che finge di avere una gamba sola e c’implora rognosa dal marciapiede; anche lei – brutta e vecchia e sudicia – sta meglio di noi. Puzza di vestiti vecchi e di stantio ma sta meglio di noi che puzziamo di morto e di lacrime rapprese sul collo. Gesù, Signore, Dio, Madonna, angelo custode, arcangelo Gabriele, Giuseppe e Maria, fate che non ci siano più i telegrammi sul pianoforte, vi prego, vi prego, vi prego! A questo penso durante il viaggio di ritorno: Rimini, Cesena, Forlì, Imola, Bologna, Modena, Reggio Emilia, Parma, Piacenza, Lodi, Melegnano, il casello e infine il garage di casa: il consueto disordine di un box di città che fa le veci di giardino, cortile e ora d’aria. Le nostre biciclette, un paio di palloni da calcio, i suoi sci e i nostri, le racchette, la cassetta degli attrezzi dove lui solamente sapeva mettere le mani. È tutto nostro adesso. Come potremo essere mai come lui? Non so usare un trapano né rimettere la catena alla bici né imbottigliare il vino. Non abbiamo imparato niente e adesso è troppo tardi.
Abbiamo poche valigie che il portinaio insiste a portarci fino in casa. Negli ultimi istanti in ascensore prego con maggiore intensità, casomai le preghiere funzionassero come i compiti delle vacanze, fatti all’ultimo minuto. La mamma sul pianerottolo cerca la chiave nella borsa ed è straordinario come riesca a trovarla. Siamo stati via quattro giorni e non andrò a scuola fino a lunedì. (Come potrò dire alla maestra che non ho più due genitori?) Vi prego, vi prego! Dall’ingresso vedrò subito se il pianoforte è tornato come prima o se tutti quei terribili fogli gialli sono ancora lì. Passo veloce sotto la manica del soprabito di mia madre e freno sul tappeto in salotto: il pianoforte è là, sgombro, pulito e lucido. Grazie Gesù, grazie Madonna e grazie anche a San Giuseppe. La nostra tata Argia, insieme ai telegrammi che ha riposto in una scatola, ha ripulito la casa da cima a fondo nel tentativo di cancellare, con le lacrime agli occhi, ogni impronta del Signor Giovanni.
Una domenica, qualche mese più tardi, durante il gran premio, con mia madre che dorme (ho già detto che è giorno?) e mio fratello spalmato davanti alla tv sulla poltrona che era di papà, vado in bagno. Un’occhiata rapida alla Settimana Enigmistica a un cruciverba lasciato in sospeso. In famiglia amiamo leggere in bagno, abbiamo un mobiletto apposito con le nostre riviste preferite: Grazia, Gioia e Amica per la mamma, la Settimana Enigmistica e il Corriere dei Piccoli per noi. Topolino ci è stato inspiegabilmente vietato da nostro padre un pomeriggio che stavamo giocando in camera di mio fratello. Entra e dice: da ora in poi non si compra più Topolino, siete grandi (grandi?!) e siete in grado di leggere libri invece che fumetti. Provate, sono molto più interessanti. Noi non abbiamo fiatato, neppure dopo che la porta gli si era richiusa alle spalle e neppure dopo la sua morte il divieto è decaduto; in fondo era uno dei pochi insegnamenti che ci aveva lasciato e che riuscivamo a ricordare, insieme al funerale di Luther King cui ci aveva fatto assistere in televisione, poco più che lattanti, perché ricordassimo. Col risultato che io ho probabilmente mal digerito il mio biscotto al Plasmon e che mio fratello è rimasto traumatizzato per mesi chiedendosi come avrebbero fatto i bambini di Luther King senza il padre, fino a che non è toccato anche a lui.
Rimetto la Settimana nell’armadietto e faccio per alzarmi quando vedo – cosa vedo?! – un pelo. Il primo. Già lungo. Come ho potuto non accorgermene fino ad oggi?!
Un pelo.
Un intrigante.
Sottile.
Serpentifero pelo nero.
È finita. L’infanzia, l’illusione di restare bambini, l’allegra impudicizia degli implumi. Ora le ho anch’io – le piume. Tutto può precipitare adesso, le mura di Gerico posso crollare ancora e ancora perché non importa più. Sono diventata grande, ho i peli. Mi sono cresciuti e sono qui per restare. Finirò la mia vita con loro e quando morirò mi sopravvivranno. Ho letto di certe mummie al museo egizio che hanno tutti i peli al loro posto. Una cosa tremenda. La domenica è rovinata, la mamma continua a fingere di dormire dietro la porta, mio fratello inebetito dal rombo dei motori e del suo cuore, io che divento grande e – se possibile – più incazzata.
Io che do fuoco al mobiletto dei giornali nel bagno, che spacco lo specchio con lo sgabello, strappo i rubinetti dal muro e li getto dalla finestra in testa al parcheggiatore abusivo che fa sostare gente estranea nella nostra via, quelle bizzarre persone senza garage proprio.
No. Niente di tutto questo accade.
Ripongo la penna a sfera blu nel mobile, allaccio i pantaloni ed esco cambiata. Nel mio corpo gli ormoni hanno appena cominciato la loro offensiva. Cammino nel corridoio trascinando quell’unico pelo che oggi pesa più di tutto il buio in camera di mia madre, più del gran premio, più della domenica dove tutti ci accorgiamo che papà non è più con noi.
Arrivo sfinita nel salotto in fondo alla casa. Guardo dalla finestra, il parcheggiatore non c’è.
Ah, già. È domenica.