Federico Miozzi, TEMA: “Racconta la tua settimana bianca”

FEDERICO MIOZZI

Vedere il ridicolo nelle tragedie è una grande abilità. Federico Miozzi la possiede e lo dimostra in questo racconto dove il microcosmo familiare è il regno del grottesco. Gli elementi ci sono tutti: un appartamento in multiproprietà, una madre con velleità canore, una festa in maschera con costumi improvvisati, un portiere che confeziona figure oscene coi palloncini… Si sorride spesso leggendo le disperate disavventure di questa famigliola in vacanza invernale. Una vera commedia nera, condensata nello spazio di un racconto.

TEMA : “Racconta la tua settimana bianca”

Siamo in pericolo. Io, mia sorella, mio padre, mia madre. Siamo chiusi in un residence chiamato “Rialto”. Il migliore del Lazio, secondo l’agente immobiliare che ce ne ha vendute due settimane di multiproprietà. Questo appartamento, il numero venticinque, resterà nostro per queste due settimane, le ultime di Febbraio. Per sempre. E’ forse questo il motivo che rende mia madre tanto nervosa: sapere che – anche se dovessimo uscire vivi di qui – saremo poi costretti a ritornarci l’anno prossimo, e quello dopo ancora, per giustificare un investimento per cui lei ha tanto insistito. Sa di non poterlo rinnegare.
Il telefono ha smesso di funzionare. Siamo isolati. Quando alziamo la cornetta ci risponde la reception. Un muratore di Rieti si è autopromosso centralinista. Poco fa mi ha chiesto: “Che vòle signò?”. Mi sono mancate le parole. Ho balbettato qualcosa e ho riagganciato.
Mio padre si è addormentato sul divano-letto, con la radiolina sulla pancia. Ha passato il pomeriggio ad orientare l’antenna in tutte le direzioni, ha soffiato scaramanticamente sulla spina per le cuffie, sperando di catturare un suono vero. Adesso russa. Ha il braccio sinistro ingessato. Se lo è rotto subito, il primo giorno, cadendo dallo skilift.
L’incidente è riuscito a migliorare l’umore, già euforico a priori, di mia madre. Quando ci ha visti tornare dalle piste sul gatto delle nevi, scortati da una guardia alpina, ci ha indicati, tenendosi una mano davanti alla bocca. Ha aiutato mio padre a scendere dalla cabina, lo ha preso per il braccio sano, mi ha sorriso, e gli ha detto: “Ciccino, sei troppo vecchio per certe cose”. Non ha capito che si trattava di una premonizione.

“Pssssssss”, mamma mi ha fatto cenno di avvicinarmi: stava ai fornelli.
“Ma’, che c’è?” le ho detto.
“Ho una sorpresa” ha sibilato con un soffio di voce.
Ho alzato le spalle. “Sai chi viene qui, domani?”
“Chi?”, le ho risposto, controllando la rabbia che mi cresce dentro quando sento l’eccitazione infantile in una persona adulta.
“Mimì!”
“Michele?”
“Sì sì sì! Il tuo Michele… Michele di scuola”
“Ma mamma…”
“Di posto ce n’è. Ho chiamato sua madre, Luciana, e le ho detto se volevano venire anche loro. E lei ha accettato. Michele è contentissimo”
Lo spazio angusto, i pochi metri quadri a disposizione, ripartiti con crudele equità su due piani, si sono infeltriti, ristretti sulla mia gola. Per combattere quell’inquietudine pericolosa, sono sceso alla reception. Un uomo smilzo mi ha intercettato vicino al tavolo da ping pong. “Ehi!”, ha detto con un’enfasi che mi ha messo spavento. Indossava un farfallino a pois, una camicia a strisce arcobaleno. “Sei Patch Adams?” gli ho chiesto.
“No, sono Hourinì”
“Ma che nome è, Urìni?”
“Hourinì, con l’accento sulla i”
Mi sono messo ad accarezzare il legno verde del tavolo, per annegare il mio sadismo in un’azione ripetitiva.
“’Nzomma… Domani c’è la festa di carnevale, qui nella hall, per tutti i bambini del residence”
“Uhuh…” ho mormorato, mentre continuavo a lisciare il tavolo con la mano.
“Mi devi promettere che vieni!”
“Non so…”
“Hai una sorella, un fratello?”
“Sorella”
“Ecco: venite insieme. Forza!”
“Veramente ci sarebbe anche un mio compagno di scuola”
“Perfetto! Porta anche lui. Potete fare un trio… ”
“Vedremo”
“No, devo essere sicuro”
“Ma io non so se voglio venire, e se posso”
“Come ti chiami, piccolo?”
“Federico. E non sono piccolo” preciso.
“Ecco, Federico. Ti faccio una confidenza tra ometti: se questa festa non viene bene, con tanti bambini, i signori del residence mi licenziano”
“Mi dispiace, signor Hourinì, ma devo chiedere a mia madre il permesso, e poi non abbiamo il vestito”
“Ah, se è per quello… Basta un po’ di fantasia. Ci si arrangia con quello che si ha in casa. Tutti faranno così.” Ha scavato con la mano nel taschino, ha estratto un palloncino, lo ha gonfiato. “Adesso ti faccio un cagnolino. Te lo regalo se mi prometti che farai di tutto per venire alla festa”
Ho annuito per terminare la contrattazione, patetica come una supplica.
“Tieni, piccolo. Allora siamo d’accordo. Siamo in affari io e te”, mi ha strizzato l’occhio.

Sono tornato all’appartamento venticinque. Mio padre mi ha aperto con il braccio sano.
“Ma cosa?!?” ha urlato, vedendo la scultura di palloncino.
“Lo so, papà. E’ che ho incontrato il signor Hourinì. E ha insistito per darmi questa cosa qui…”
“Tilde! Tilde!”, ha urlato papà, “Vieni a vedere ‘sta porcheria!”
Mia madre è accorsa, con addosso un grembiule da cucina.
“Che succede, tesoro?” ha detto, con la stanchezza nella voce che le si incrinava per lo sforzo di descrivere ogni cosa come meravigliosa.
“Guarda, Tilde. Un poco di buono ha messo in mano a nostro figlio questa cosa qui. Ti rendi conto?”
“Mamma, domani c’è la festa di carnevale, nella hall. Ci hanno invitato.”
Il viso di mia madre si è illuminato. “E’ meraviglioso, amore. Corri a dirlo a tua sorella!”
Mi sono sfilato le scarpe, per salire al piano di sopra. “Alt! Questo lo lasci a me!” ha detto, togliendomi il cagnolino di mano.
I miei genitori hanno continuato a discutere ed io ho origliato dal piano di sopra.
“Tilde, ma non possiamo fargliela passare liscia a questo pervertito.”
“Dai Otello, goditi questa vacanza. Rilassati.”
“Ma lo vedi o no, ‘sto coso? E’ un… un…”
“Sssssssh… Sì sì, lo so cos’è. Ma perché agitare i bambini? Domani hanno la festicciola di carnevale. Sono tanto contenti.”
“Voglio andare in fondo a questa faccenda…”
Ho provato compassione per il povero Hourinì. Ripensavo alle sue mani nervose che goffamente strozzavano il palloncino su se stesso, alla vene del suo collo tese ad implorarmi. L’ho immaginato licenziato, o persino arrestato come un pedofilo qualsiasi.
Quando ho ripreso contatto con la realtà, ho capito che si era salvato: tutto si era concluso con un nulla di fatto. Mia madre ha scoppiato il palloncino a forma di pene con una forchetta ed ha urlato: “A tavolaaaaaaaa!”

La mattina di martedì è cominciata con una sorpresa: niente acqua. Mio padre ha telefonato in portineria. Gli hanno detto che il guasto sarebbe stato risolto entro 24 ore. “E nel frattempo?” ha chiesto papà. “Faccia come facciamo tutti: usi la neve” gli hanno risposto.
Papà ha bestemmiato. Non capita spesso, ma quando ci vuole ci vuole, come dice sempre lui.
Mamma si è divertita tantissimo, invece. Usciva sul terrazzino e prendeva con il mestolo la neve fresca. Ci ha cotto la pasta dentro. Ne ha messa dell’altra in una caraffa e ce l’ha fatta bere.
Quando andiamo in bagno, dobbiamo premunirci del secchio con la neve, per poter scaricare.
Il divertimento è andato scemando con le ore, e si è esaurito definitivamente intorno alle cinque del pomeriggio. Era appena arrivato Michele, accompagnato da sua madre Luciana e dal suo yorkshire Ettore. Mia madre si è scusata preventivamente dei piccoli inconvenienti. Ha ironizzato sulla questione del bagno. Io e Michele (che mia madre si ostinava a chiamare affettuosamente Mimì, come la pallavolista della TV) avevamo giocato con Ettore sul terrazzino. Lo avevamo lasciato pascolare sulla neve fresca, come un topino, mentre noi cercavamo di colpire i tettucci delle auto a pallate di neve.
“Fedeeeee” ha urlato mia madre dalla soglia della finestra.
“Che c’è?” ho risposto.
“Venite dentro, che prendiamo il tè caldo tutti insieme”
Siamo rientrati in soggiorno. Michele mi ha mostrato gli esercizi che aveva insegnato ad Ettore, con anni di paziente addestramento.
“Mi prendi la neve per il tè, tesoro?” mi ha chiesto mamma.
Sono uscito sul terrazzino e ne ho prese quattro mestolate, mentre dentro Ettore faceva il morto sul tappeto in cambio di un biscotto a forma di osso.
“Grazie caro” ha detto mia madre.

“I ragazzi domani parteciperanno alla festa di carnevale del residence” ha comunicato mia madre a Luciana.
“Sì? E da cosa si vestiranno?”
“Non sappiamo ancora. Domani ci penseremo”. Mamma ha fatto un sorriso larghissimo, di quelli che costringono a chiudere gli occhi.
“Bello! Miky, allora domani in paese ci andiamo a comprare la maschera” ha detto Luciana.
“Sì, mamma” ha detto Michele, che strappava un osso di budello puzzolente dalle piccole fauci di Ettore.
“Ecco il tè! Il tè! Il tè!” ha detto mia madre, che si stava scottando le mani.
“Ragazzi, ne volete?” ci ha chiesto Luciana.
“No!” abbiamo risposto all’unisono.
Mia madre trafficava nella piccola cucina. Luciana si è riempita una tazza. Un tè leggerissimo, chiaro chiaro e fumante.
“Aaaaah! Però che pace qui! Che silenzio!” ha sospirato Luciana, portandosi la tazza alle labbra e soffiandoci sopra. “Un paradiso innevato!” ha insistito, bevendo una prima sorsata.
La bocca le si è arricciata un po’. Mia madre è ritornata dalla cucina. Le si è seduta di fronte e le ha chiesto: “Earl Grey o Darjeliing?”, mostrando due bustine, una giallo canarino ed una viola.
Luciana, ha sbattuto la tazza sul piattino, inondadolo. Poi l’ha ripresa e l’ha avvicinata al naso.
“Ma che diavolo…” ha sussurrato, come parlando a se stessa solamente.
Di colpo i suoi occhi si sono spalancati, si sono riempiti di una consapevolezza, anzi: di una certezza. Mia madre è rimasta ferma con aria interrogativa, con le bustine in ciascuna mano, come una testimonial. “Ma questo è… è… è…” ha balbettato Luciana.
“Cosa, cara? Cos’è?” le ha detto mia madre, persistendo nel suo ruolo da baronessa inglese.
“E’ piscio!”

Mercoledì era il gran giorno della festa. E’ iniziato male. Michele aveva il mal di stomaco. Aveva preso freddo durante la notte. La mia camera è una specie di loculo senza finestre, stretta, con un letto a castello.
Michele ha dormito di sopra. Io non avevo sonno. Mi sentivo ancora eccitato dopo l’episodio del tè, che mi era costato un ceffone di mio padre. “L’hai capata di proposito!” mi ha urlato, riferendosi alla neve impregnata dell’urina di Ettore. Ho cercato di discolparmi, ma, proprio in quel momento, il cane si è messo ad ululare alla luna attraverso il vetro e mi è venuto da ridere. E’ suonata come un’ammissione e ho capito, dalla consistenza del colpo sulla mia guancia, che anche a mio padre la cosa lo divertiva e che stava facendo solamente il suo dovere.
Non riuscivo ad addormentarmi. Luciana dormiva di sotto, sul divano-letto, insieme ad Ettore. Mia madre, mio padre e mia sorella nella camera matrimoniale.
Per ammazzare il tempo, ho iniziato a giocare con una maniglia che era fissata al muro. La tiravo su e giù, come la leva del cambio di un’automobile.
Solo questa mattina ho scoperto che si trattava della maniglia del bocchettone dell’aria. Michele è stato cullato dai venti polari per tutta la notte e ha trascorso la mattinata in bagno. Essendoci il problema dello scarico e dell’acqua, abbiamo organizzato una catena di montaggio: i secchi passavano di persona in persona, dal terrazzino al piano di sopra, mentre Michele intonava note cupe dentro la ceramica e ci intossicava con fragranze pestilenziali.
“Tilde, ci credi che questa mattina mi sento ancora quel saporaccio in bocca?” diceva Luciana a mia madre, mentre riceveva l’ultimo secchio della catena di montaggio.
“Povera cara…E’ incredibile quanto liquido possa uscir fuori da un animaletto tanto piccolo…”
“Tilde, ti ringrazio per l’ospitalità, ma ho deciso di rientrare a Roma oggi stesso. Miky non può stare qui in queste condizioni.”
“Ma certo. Peccato, però: proprio questa sera che c’era la festicciola…”

Dopo aver accompagnato Luciana e Michele alla stazione, abbiamo scoperto che anche mia sorella Maura stava male. Aveva la febbre.
Io e papà ci siamo incamminati a piedi verso il paese, a valle. Volevamo andare in farmacia. A metà del tragitto ci siamo ritrovati una montagna bianca a bloccarci la strada e siamo stati costretti a fare un dietrofront. Una slavina era caduta e noi siamo dovuti tornare al residence, dentro il quale siamo intrappolati da allora.
Adesso è Giovedì e aspettiamo ancora che qualcuno ci venga a tirar fuori. Dalla televisione abbiamo sentito che siamo a rischio: una valanga potrebbe seppellirci qui dentro. Poi anche l’antenna televisiva ha fatto tilt, e anche la linea telefonica. Aspettiamo che qualcuno ci venga a soccorrere e preghiamo che non spunti il sole a sciogliere la massa bianca sospesa su di noi.
Mia madre, quando le abbiamo comunicato la notizia, ha avuto una reazione scomposta di infantile eccitazione: “Oddio! Sono come Ambrogio Fogar!”, ha detto.
“Va’ a vedere se di sotto possiamo telefonare a qualcuno” mi ha ordinato papà.
Io sono sceso e mi sono messo in fila alla reception, che era affollatissima di gente petulante. Hourinì mi ha colto di sorpresa: mi ha preso in braccio da dietro e mi ha detto: “Hai preparato la maschera per stasera?”
“Ma che maschera! Qui muoriamo tutti!” ho risposto. Le persone intorno a me hanno iniziato a spingere in fila. La voce di un bambino suona sempre come una innocente constatazione, un’ineluttabile profezia.
“Ma no che non moriamo! E poi, lo spettacolo non si ferma: de sciò mas go òn!”, ha detto Hourinì, “Vuoi un altro cagnolino?”
“No. Per l’amor del cielo. No!”

C’è stata una lunga discussione tra mia madre e mio padre. Alla fine ha avuto la meglio mamma: io e mia sorella saremmo andati alla festa.
“Ora pensiamo alla maschera!” ha detto mamma, con quell’atteggiamento pratico da spidocchiatrice che accettiamo come una sciagura.
“Ma Maura sta male. Come fa a venire?” le ho chiesto.
“Ha avuto solo un po’ di febbre. Se si mette a giocare e a sudare un po’, sfoga. Vedrai che starà anche meglio.”
“Sfoga?”
“Sfoga, sfoga…” ha ripetuto.
Allora siamo saliti sopra, nella camera matrimoniale. Mia madre ha svegliato mia sorella con la forza. “Mauretta, tesoro… Sveglia… Devi prepararti per la festa”
“Mmmm…”
“Dai, forza. Che abbiamo poco tempo.”
“Tu, invece”, mi ha chiesto, “da cosa vorresti vestirti?”
“Da Zorro o da moschettiere” le ho detto.
“Non c’è problema. Sarete i più belli della festa! Diamoci da fare!”

Alla sera siamo scesi nella hall – io e mia sorella, mano nella mano.
Maura camminava come uno zombie: la febbre alta le conferiva un’andatura da ubriaca. Ogni tre passi frenava e mi diceva: “Fammi ballare, presto!”, perché doveva aver creduto a nostra madre, quando le aveva detto che sarebbe stata meglio dopo una copiosa sudata.
Quando siamo entrati nella hall, ci è venuto incontro Hourinì. “Ciao splendidi!” ha urlato con enfasi. “Venite che vi faccio la fotografia!”. Ci ha scattato una polaroid. Non ha aspettato lo sviluppo e se l’è messa in tasca. “Ma spiegatemi la vostra maschera”, ci ha chiesto.
“Cosa c’è da spiegare?” ho risposto.
“Ho capito…”, ha sorriso, “…lasciatemi indovinare…”. Ha preso mia sorella per le spalle, l’ha studiata. Mia sorella aveva la palpebra calante e si lasciava ammirare senza opporre resistenza. “Tu sei una…una…mmm…una…”
“Principessa!” ha detto mia sorella.
“Ma ceeeerto… Una principessa. Non ci sono dubbi. Elegantissimo questo cappello!”
“Maura, ma cosa dici! Sei una fragola. Non ti ricordi?”, le ho detto.
“Una principessa fragolina, allora!” ha detto Hourinì.
Mia madre era riuscita a pensare per lei quest’unica maschera, l’unica in grado di nascondere l’esantema che le era scoppiato in faccia. Le aveva passato un fard rosa sulle guance, e le aveva cucito sul berretto di lana blu elettrico, delle foglie di lattuga ammuffite che aveva recuperato dal secchione del ristorante.
Maura esibiva un sorriso spento. Una foglia di insalata le pioveva sulla fronte, come una frangetta.
“E tu?”, Hourinì è passato poi a me.
“Io sarei Zorro”, ho detto, con la triste consapevolezza del condizionale.
“Wow! Zorro! Aiuto, non uccidermi!” ha recitato, alzando le mani. “Ma… Dov’è la spada?”
“Eccola” Gli ho mostrato un serpentone snodabile di plastica – verde e bianco – che era rotto in punta e oscillava mollemente a destra e a sinistra come una banderuola.
“Mio Dio! Non mi infilzare, ti prego!” ha detto, ed io ho alzato gli occhi al cielo.
“Fammi vedere il mantello”
“No!”
“Dai, marrano! Voltati!”
“None!”
“Come vuoi… Beh… Unitevi agli altri ragazzini” ha concluso.
Io mi sentivo strangolare. Mia madre mi aveva stretto al collo, con un triplo nodo, un asciugamanino da bidet bianco e rosa. “Ecco fatto il mantello”, aveva detto.
Poi aveva aggiunto: “La spada l’abbiamo trovata. A questo punto ti mancano solamente la mascherina e i baffi”. Per la mascherina aveva ritagliato due buchi da un foulard finto Louis Vitton, il classico – quello marrone e d’oro -, che regalavano con “Gente”. I baffi me li aveva disegnati con una matita nera. “Come sono i baffi di Zorro? Come sono i baffi di Zorro? Come sono i baffi di Zorro?” ripeteva cantilenante mentre si dava da fare con la sua trousse. “Eccoli qua!” aveva concluso, dopo avermi disegnato quelli di Giuseppe Mazzini.
“Sei fantastico, cherie! Forza, fatevi vedere da vostro padre!”
Papà aveva alzato gli occhi dal televisore, sul quale cercava di sintonizzare qualcosa, ci ha guardato per un attimo, e ha detto: “Sembrate du’ zingarelli”.
“Vedete! Siete perfetti! Ora andate!” ci aveva detto mamma, che aveva deciso di partecipare (da sola, essendo il mercoledì di coppa) alla “serata danzante” organizzata – parallelamente alla nostra – nello scantinato del residence. Una cantina umida e maleodorante che veniva da tutti chiamata “Il Papaia”.

Quando ci siamo uniti agli altri bambini, abbiamo scoperto di essere i soli a vestire maschere caserecce. Stoffe pregiate, dentiere, mantelli, drappi, mascherine, cappelli. Tutto confezionato a dovere.
Hourinì ci ha presentati con un entusiasmo eccessivo, che ha spinto logicamente gli altri bambini a prenderci in giro. “Guardate che splendore! La principessa fragolina e il suo fedele difensore, Zorro!”, ha detto.
Io e Maura siamo entrati nella sala addobbata mano nella mano. Mia sorella si è diretta con passi piccoli al centro della pista. Sentiva la febbre crescere. Lo capivo, perché soffiava in alto sulla fronte una foglia di lattuga.
Poi è partita “Tropicana” dal juke box. Mia sorella si è messa a ballare, e per un attimo ho creduto che le cose sarebbero migliorate.
Marco, un bambino di Pescara vestito da Dracula, mi è venuto vicino e mi ha chiesto: “Da cosa sei vestito? Non ho capito bene”.
“Da zingaro”, ho risposto. “Con questo straccio pulisco i fari delle macchine ai semafori”, mi sono indicato il mantello.
“E i baffi?”
“Non sono baffi. Sono sporcizia”
Quando ho mentito sulla mia identità mi sono sentito molto peggio e molto meglio. Ho pensato allo sforzo di mia madre di illudermi sulla bellezza del mondo. Sentivo di averla tradita, arrendendomi al giudizio degli altri.
Allo stesso tempo stavo molto meglio. Holly Hobbie, la gattina, Dracula, Arlecchino, tutti mi hanno iniziato ad insultare, urlando “Che schifo, lo zingaro!”. Io li inseguivo e loro scappavano. Io ho sfogato così: repellendo gli altri. Mi sono ritagliato un ruolo preciso, ho fatto finta che quell’umiliazione fosse solo una recita.
Quando è partita “Who’s that girl” di Madonna, Hourinì ha detto: “Venite, facciamo il trenino!”.
Mia sorella aveva il fondo tinta bianco squagliato dal sudore. L’esantema sulle guance le bruciava da sotto. Hourinì l’ha presa in braccio e l’ha messa a fare la locomotiva, davanti agli altri. “Guidi tu!”, le ha detto.
Maura si è messa le mani ai fianchi ed ha iniziato a scivolare i piedi sul pavimento liscio.
“Ma che fai!” le ho sibilato ad un orecchio.
“Pattino!”, mi ha detto con gli occhi lucidi, febbricitante.
“Devi camminare a tempo: è il trenino”
“Che ne sai tu? L’ho visto fare ad Holiday on Ice!”
Ha iniziato ad oscillare con il corpo. Destra, sinistra, sinistra, destra. Io mi sono sganciato subito; ho finto di dovermi allacciare una scarpa. Colombina ha messo le mani sui fianchi di mia sorella, ha riunito i vagoni.
Hourinì batteva le mani, per suggerire il ritmo dei passi. C’era un clima di euforia. I bambini in fila suonavano le trombette, soffiavano le stelle filanti. Tutti ridevano e li ho invidiati perché era palese che si erano dimenticati che potevamo morire da un momento all’altro.
Mia sorella aveva un volto contratto, concentratissimo. Al completamento del primo giro dei divani, Colombina ha tirato fuori un urlo ultrasonico, da film horror.
“Un bacarozzo!” ha urlato, puntando l’indice sulla testa di mia sorella.
Il trenino si è sciolto. Dracula si è avvicinato a mia sorella. Le ha strappato una foglia di lattuga, sulla quale camminava uno scarabeo nero. Giulio, un bambino pestifero vestito da pirata, ha lanciato per terra una fialetta puzzolente. La canzone di Madonna stava sfumando e nella sala si era creato un baccano, fatto di “bleah!” “che schifo!” e gesti plateali di repulsione: nasi tappati, bocche ansimanti, vomitate mimate.
“Ragazzini, buoni!”, ha urlato Hourinì. Maura si è strappata le foglie rimaste dalla testa. Le ha studiate una ad una, come un’igienista. Poi si è accorta che erano rovinate e sgualcite, le ha tenute sul palmo come creaturine esanimi.
“Tu non sei una principessa! Tu sei una monnezza!” le ha urlato Colombina, con tutta la sgraziata crudeltà del romanesco intonato da una voce bianca.
Mia sorella ha alzato le spalle. Le ha spinte in alto, con due o tre colpetti. Dopodichè si è messa a piangere. Lo ha fatto debolmente, perché non le restavano forze nemmeno per quello.
Hourinì mi è venuto vicino, si è inginocchiato e mi ha detto: “Porta tua sorella a casa. Mi raccomando, però: racconta a mamma e papà che vi siete divertiti…”
“Ok”, ho detto.
“Promesso?” ha detto, stampandosi in faccia un sorriso finto e disperato.
“Sì…”
Poi ha preso un palloncino, lo ha gonfiato e ha regalato a Maura un cagnolino tutto per lei.

Come vi ho detto, oggi è Giovedì. Mia madre e mio padre non si parlano. Mamma studia un pentagramma e si esercita in un solfeggio cantato.
“Doooooo-o-o-o…Reeeeeeeee-e-e-e….” cantilena.
Ieri sera, ho preso Maura per la mano e l’ho portata via dalla festa. Siamo scesi per le scale, fino al “Papaia”. Poco prima di entrare le ho sequestrato il cagnolino, l’ho steso per terra e l’ho fatto scoppiare. Maura mi ha odiato, non capendo che l’ho fatto per il suo bene.
All’interno c’erano divanetti di velluto rosso, sedie pieghevoli ai lati della pista. Un bancone di alluminio, dove veniva servito da bere. Tre o quattro coppie di persone ballavano abbracciate. Al piano-bar un signore con i baffi alla Maurizio Costanzo cantava “Acqua e sale” di Mina e Celentano, in coppia con mia madre. Il Nisi: tutti lo chiamavano così.
Nostra madre teneva gli occhi chiusi, il suo microfono fischiava ad ogni suo acuto e le persone che ballavano mollemente scuotevano la testa dal fastidio. Io mi sono avvicinato alla tastiera Yamaha, che sembrava un’astronave in grado di suonare da sola. Dietro al Nisi, erano appesi dei ritagli di giornali, risalenti – credo – agli anni settanta. Piccoli trafiletti della “Gazzetta reatina”, che recensivano le esibizioni di un gruppo chiamato “Sexual chocolate”.
Mamma ha riaperto gli occhi solo alla fine della canzone. Teneva la mano al Nisi, come fanno le grandi coppie del mondo dello spettacolo. Un applauso flebile si è levato nella sala, di liberazione o di scherno, chissà.
“Beh?” mi ha detto mamma, coprendo con la mano il microfono.
“Da quando è che canti?” le ho chiesto.
“Da stasera… Stefano dice che ho talento…”, ha ammiccato al Nisi come mai le abbiamo visto fare con nostro padre.
“Dove hai lasciato tua sorella?” ha chiesto, con una preoccupazione che mi ha stupito perché, per la prima volta, finta e infastidita. Ho sofferto quella distanza, ma ho anche pensato che, semmai fossimo stati sepolti da una valanga in quel preciso momento, sarei morto non più da bambino ma da uomo cresciuto.
Mia sorella è avanzata dal buio. E’ comparsa davanti a mia madre, come una sopravvissuta ad uno sciame d’api. Il Nisi ha detto: “Che creatura! Bella come la mamma…”
Mamma gli ha detto “Piantala!”, con fare civettuolo. Poi si è accorta che Maura piangeva. “Che è successo?”, le ha chiesto.
Maura si è fatta ancora più sotto, ha barcollato con le mani dietro la schiena, le ha sfilate da dietro e le ha mostrato le foglie di lattuga ammuffite e lacerate. Ha trattenuto un singulto e ha tirato fuori tutta la voce residua, per chiederle: “Perché non l’hai lavata?”
Mamma è sembrata rinsavire per un attimo. “Tesoro, canto quest’ultima canzone e poi ce ne andiamo a dormire, ok?”
Ha stonato “Quello che le donne non dicono” della Mannoia, mentre il Nisi la incoraggiava con allegre pacche sul sedere, suggerendole il tempo con lo schiocco delle dita.
Mamma lo ha ringraziato, tenendo le mani giunte e facendo un inchino. Nisi ha insistito affinché accettasse in dono un corso di canto, scritto ed autoprodotto da lui, sul quale ha segnato il suo numero di telefono, per dubbi o chiarimenti.

“Puoi tacere, cara?”, dice mio padre.
Mamma alza gli occhi dallo spartito. “No”, risponde.
“Lo voglio proprio vedere in faccia il tizio che ti ha messo ‘st’idea in testa”
“Miiiiiiiii-i-i-i!”
“Tilde, ti prego!”
Allora mamma sbuffa, rassetta i pentagrammi ed esce sul terrazzino.
“Era ora!” sbuffa mio padre.
Maura dorme al piano di sopra. Papà continua a cercare di sintonizzare la radio.
Quando arriveranno i soccorsi, potrò finalmente chiudere questo tema per le vacanze.
Mamma canta a squarciagola “La solitudine” della Pausini. Tiene le braccia sul cornicione. La sua voce riecheggia fino a valle. Tutto il residence soffre in ascolto.
Suona il telefono. “Rispondo io!” dico a papà. Forse siamo salvi.
“Pronto?”
“Signò?”
“Sì?”
“Deve da di’ alla signora de stasse zitta!”
“Scusi, certo”
“Sbrighete! Prima che ce crolla tutto in testa!”. Riattacco.
“Beh?” dice papà.
“Mamma deve fare silenzio, altrimenti rischiamo…”
Papà lancia la radio sul cuscino, si muove a grandi passi verso il terrazzo, apre la finestra. C’è un gran frastuono. Come il rombo di un motore che viene da lontano.
Corre da mamma. L’abbraccia da dietro, le mette una mano davanti alla bocca. Mamma lo morde e poi f