Federico Gironi, Zampe all’aria

Anche se questo è il primo racconto che Federico Gironi ha scritto nella sua vita (non ci credevo, ma lui me lo giura), è evidente che abbia dimestichezza con la scrittura, e la sua attività di critico cinematografico ne è la prova. Mescolando con leggera e spavalda naturalezza riferimenti a Kafka e Calcutta, Gironi ha scritto una parabola moderna surreale e davvero divertente, l’improponibile amicizia che si sviluppa fra un uomo e un insetto nella Roma contemporanea. Un piccolo esempio di geniale surrealismo che ci fa sperare non si limiti a questa singola prova ma spinga l’autore a proseguire con nuove prove.

 – 

Federico Gironi, Zampe all’aria

Rovesciata sulla schiena, le zampette che si agitavano nell’aria (come affannandosi a raggiungere e tagliare un traguardo, quello di una morte imminente e non prorogabile) la cimice mi ricordava il ragazzo col busto della IV D. Quello con gli occhiali spessi e lo sguardo buono, che i compagni di classe si divertivano a sdraiare sul banco e poi guardavano, sghignazzando, mentre non riusciva a tirarsi su né a girarsi. 
Era grigio-verde.

La cimice, non il ragazzo col busto.
Il colore, e lo scudo del guscio (levigato, geometrico, quello del personaggio poligonale di un videogame prima dei rendering che lo rendono fluido e arrotondato), la facevano simile a un mezzo militare a tecnologia stealth invisibile ai radar: un caccia F-117, una nave Sea Shadow, una M-80 Stiletto, con i pannelli radar-assorbenti ricoperti di polvere di ferrite.

Stava lì, la cimice: zampe all’aria, silenziosa, tra un flacone di shampoo all’olio di argan e un tubetto di crema per il viso all’avena e cera d’api, unici scampoli di natura ai quali si poteva aggrappare dopo essersi improvvidamente infiltrata dentro casa.

Stavo lì anche io, seduto sul cesso.

E, nonostante mi sforzassi, non riuscivo a non guardarla.

Anche quando cercavo di concentrare l’attenzione su una delle mie storie preferite di Zio Paperone (quella dove l’avido papero si mette in testa di trasformare il suo Deposito in una piramide egizia, con l’aiuto dell’ambiguo Marchingegner Putrella), anche quando mi ostinavo a tenere gli occhi fissi sul Grande Classico liso dal tempo che tenevo tra le mani, sapevo che la cimice era lì.

Vedevo le sue zampette muoversi. Sentivo che la cimice era lì: e mi stava fissando.

Appoggiai il grande classico sulle piastrelle fredde e umide del pavimento, aperto per tenere un segno che non avevo bisogno di tenere, e fissai la cimice a mia volta. 
«Cosa mi guardi a fare?,» mi disse all’improvviso dopo qualche secondo di silenzio e un duello di sguardi. «Ti prego, dimmi: cosa mi guardi a fare?»

Fui sul punto di domandarle se stava parafrasando Calcutta apposta, ma mi trattenni dal farlo: l’ultima cosa di cui avrei avuto bisogno, ancor più di una cimice mortente nel bagno, era di una cimice hipster di Roma Sud, morente nel bagno.

«Ti guardo perché non posso farne a meno. Ti guardo perché la tua presenza, lì sul tavolino, tra uno shampoo e una crema per il viso, con le zampette che arraffano l’aria, è un buco nero che risucchia qualsiasi sguardo io possa lanciare dentro questo bagno. E forse anche fuori.»

Avevo pronunciato quelle parole in apnea, più come una supplica che come una giustificazione, figurarsi se potevano suonare simili a un’accusa. 
Ma, per tutta risposta,  la cimice rimase in silenzio.

Persino il movimento ritmico e meccanico delle zampette aveva rallentato, con regressione lineare, la stessa dei sei cilindri in linea di una BMW il cui acceleratore fosse stato rilasciato di colpo, il contagiri che lentamente riporta la lancetta in prossimità dello zero, ma senza arrestarsi del tutto: stabilizzandosi poco sotto i 1000 rpm, attorno a un minimo regolare e inesorabile.

Il silenzio era imbarazzante: più imbarazzante di quelli che ti pesano addosso quando prendi l’ascensore con qualcuno che conosci. Non potevo nemmeno mettermi a parlare del tempo, del riscaldamento globale, del blocco del traffico che mi inchiodava in casa nonostante la mia auto non rientrasse di un soffio nella categoria di emissioni richiesta per la circolazione (l’obsolescenza è oramai programmata anche nel settore automobilistico): era pur sempre una cimice, quella che avevo davanti.

 

Mi sudavano le mani. I piedi, le piante ben piantate sulle piastrelle frette e umide del pavimento, stavano gelando. Sentivo il cuore accelerare il suo ritmo. Provai ad aprire la bocca, ma non ne uscì altro che un monosillabo inarticolato. 
La cimice stava lì, riversa sul dorso, quasi immobile; ma non proprio. E mi fissava. Non so dire come lo sapessi, ma sapevo che mi stava fissando.

Lo sentivo.
Sentendo la disperazione montare, afferrai il Grande Classico che giaceva sul pavimento e, senza neanche richiuderlo – lasciandolo anzi scientemente aperto alla tavola dove Rockerduck si traveste da fantasma del Faraone per spaventare Paperone, per massimizzarne la superficie – mi preparai a un gesto drastico, definitivo, che mi appariva irrinunciabile.

Allungai il braccio verso il tavolino, senza alzarmi dalla tazza. E, in quel momento, squillò il telefono. Quello fisso. 
«Rispondi tu,» disse la cimice, un filo di noia supponente nella voce che – stronza – nemmeno si era data pena di nascondere.

«Se è per me, non ci sono,» aggiunse poi, senza la minima ironia.

 

Mi alzai intontito dal water, uscii dal bagno lasciando i boxer a righine appallottolati sulla seggiola nell’angolo, e corsi verso il cordless rimasto sul divano del salotto.

«Sì?», risposi, un po’ affannato, mentre mi ritrovavo a scrutarmi perplesso i genitali all’aria, e subito dopo mi voltavo allarmato per intercettare l’eventuale sguardo indiscreto di qualche vicino in arrivo dalla finestra. 
Era Rosanna, dal centro clienti Fastweb, che in quanto abbonato da diversi anni voleva offrirmi un esclusivo pacchetto promozionale per linea fissa, internet e mobile (perché io avevo un telefono cellulare, vero?, con quale gestore, se poteva chiedermelo?), l’offerta che mi proponeva era senz’altro più vantaggiosa e mi avrebbe avrebbe fatto risparmiare almeno venti euro al mese a patto di stipulare un nuovo contratto entro il 15 marzo, e di passare la mia sim (e quella di mia moglie e dei miei figli, volendo, ero sposato? Erano disponibili pacchetti famiglia) dal mio gestore a Fastweb. 
Ascoltavo la voce con chiaro accento est europeo snocciolare senza colore interpretativo né passione commerciale il copione che le veniva imposto e, anche se non sapevo che alla fine del turno sarebbe tornata di corsa a casa sua alla periferia di Tirana, dove avrebbe dovuto preparare la cena alla figlia Jora – ventidue anni, un metro e 73, 96-62-89, superbo quanto inquietante mix di natura e chirurgia estetica che aveva sognato le telecamere di Agon Channel prima del suo fallimento, e che ora valutava l’ipotesi di trasferirsi a Milano per fare la escort (solo per un paio d’anni, s’intende),  ma che per il momento si limitava a parassitare senza ritegno la madre – lo potevo immaginare.

Ascoltavo Rosanna, rispondendo confuso e evasivo alle sue domande, piantato contro lo specchio nel corridoio, squadrando il mio corpo nudo, la manciata di chili di troppo che appesantivano il girovita, il pene dall’aria simpatica e proporzionata. Avrei dovuto forse depilarmi il pube, o perlomento accorciare i peli per dargli un po’ di risalto, come mi pareva di aver capito fosse oramai prassi comune, in base alle mie esperienze negli spogliatoi della piscina?

Immerso in questi pensieri, non mi ero reso conto che Rossana aveva terminato la sua esposizione, e attendeva una risposta da me. 
«Siniore? Siniore

Ero in difficoltà, avevo lasciato troppo spazio al mio avversario e ora non avevo altra scelta che ribattere come potevo, un paio di metri dietro la linea di fondocampo, alle bordate della telefonista albanese.
«Sì… mi scusi, eh, un attimo solo.»

Senza nemmeno pensare a quel che stavo facendo, mi affacciai alla porta del bagno come a cercare un impossibile supporto. E prima che potessi aprire bocca, la cimice tagliò corto al posto mio: «Digli che non t’interessa, che ne hai piene le palle di queste telefonate nei momenti meno opportuni, che torni a cacare.»
Non fui così esplicito, ma nel complesso mi attenni alle indicazioni dell’insetto.

Attaccai il telefono, mentre ancora sentivo Rosanna cercare di convincersi a convincermi a non perdere quell’occasione unica nella mia esistenza di consumatore.
Rimasi in piedi immobile per un istante, mentre il mio cervello cercava di processare informazioni contrastanti nel più breve lasso di tempo possibile, incerto se andare a collocare nuovamente il telefono sulla sua basetta, per permettere un’immediata ricarica, o se rimettermi a sedere sulla tazza. 
La seconda opzione era quella che avrebbe assecondato maggiormente la mia indole irriducibilmente pigra: ma a quel punto l’evacuazione corporale era da escludersi, e l’idea di affrontare di nuovo la cimice mi atterriva. 
D’altronde, la mia spietata buona educazione mi faceva ritenere inconcepibile l’idea di lasciare l’insetto lì da solo, troncando la conversazione («ma quale conversazione?», gridava una parte di me) in maniera così brusca, senza nemmeno un saluto o una giustificazione.

A cavarmi d’impaccio fu, ancora una volta, l’invertebrato. 
«Guarda che prendi freddo.»

«Eh?»

«Ciccio, sei nudo. E stai nella corrente.»

«Ah. Già.»

«Eh.»

«Beh… grazie.»

Feci un passo nel silenzio che seguì le mie parole, e dopo essermi dato una lavata sommaria, imbarazzato dalla presenza aliena nel corso delle mie abluzioni, m’infilai maglietta e pantaloni. Fissai nello specchio gli occhi venati di rosso, ravviai i capelli con le dita, dopodiché mi voltai colmo d’imbarazzo verso la cimice. 
Stava sempre lì, riversa sul tavolo, le zampe che si muovevano a scatti lenti: “come ‘na marionetta”, avrebbe detto l’Enzo di  Un sacco bello.  Ma quella marionetta lì non aveva fili. E, se li aveva, di certo non ero io a muoverli.

«Senti…,» azzardai. 
Nessuna risposta.
«Vuoi… Magari posso girarti, se vuoi. Ma non ti tocco, eh, mi basta far scivolare la pagina di una rivista sotto il tuo – come si chiama, guscio? – sotto il tuo guscio e poi magari ti giro, o se preferisci posso riportarti fuori, sul davanzale della finestra o dove vuoi tu.»

«Ecco, bravo, non toccarmi,» fu la secca risposta. Poi, quasi tra sé: «La pagina sotto al guscio: ma dimmi te cosa mi tocca sentire.»
La cimice sbuffò, prese fiato, e continuò: «Ma tu cosa credi? Che abbia bisogno di te per rimettermi in piedi, e ricominciare a camminare? Che senza il tuo aiuto patetico e paternalista, rimarrei qui, impotente, a morire lentamente?»
Non c’era rabbia, in queste parole, che venivano anzi pronunciate con una punta amara di compassione nei miei confronti, che sentivo ancora più acre e sgradevole in gola quanto più cercavo di farfugliare una giustificazione, una risposta, un contrattacco verbale, un arrocco difensivo: qualcosa che mi facesse uscire dall’angolo in cui sembravo essermi infilato, ancora una volta, tutto da solo. 
Dovevo davvero sembrare un bambino rimproverato dalla maestra, perché l’insetto cambiò tono, mise su quello accomodante di quando si spiegano i Fenici e mi disse: «Guarda che mi stavo solo riposando, niente di grave. Comunque, grazie per esserti preoccupato. Piuttosto, tu: non stai facendo tardi?»
«Tardi?», esitai. «Beh, no. Ci sono le targhe alterne, oggi, non posso circolare. Non vado da nessuna parte, rimango in casa.»

«Ah, le targhe alterne. Col vento degli ultimi giorni, credevo le avessero tolte.»

«No.»
«Magari, allora, ci vediamo un film.»
«Un film?»

«Sì. Non ne vedo da tanto.»
«Beh, sì, credo che… si potrebbe fare. In effetti anche io…»

 

DLING-DLONG

 

Il campanello. Chi poteva essere?

«La porta,» disse la cimice.

 

Annuii goffamente, e attraversai il corridoio a larghe falcate, scrutando con la coda dell’occhio la mia immagine riflessa nello specchio, che sembrava fuori sincrono di qualche decimo di secondo rispetto alla realtà, e guardai dallo spioncino. 
Deformato dall’effetto grandangolare, il volto butterato di un ragazzo sulla trentina sembrava ancora più inquietante. Capii subito da quel cartellino, fissato malamente al bavero della giacca Oviesse che indossava, di cosa si trattava. 
Poco prima che il polpastrello del dito medio della sua mano destra (“chi cazzo suona il campanello di casa altrui col medio,” pensai con rabbia) si posasse nuovamente sull’interruttore, aprii la porta tanto di colpo che il ragazzo fece un mezzo passo indietro dallo spavento, e quasi perse il controllo della cartellina rigida che teneva in mano. 
Devo ammettere che rimasi impressionato dalla rapidità con la quale si ricompose immediatamente. 
«Buongiorno, scusi se la disturbo, ma stiamo promuovendo delle nuove, imperdibili offerte che riguardano le forniture congiunte di gas ed energia elettrica. Lei è cliente di quale gestore?»
«No, guarda, non mi interessa.»
Il mio tono era duro e teso, pronto all’aggressione, ma una parte di me sperava che il mio sguardo implorante lo convincesse a non insistere. Lo sguardo della vittima di un film horror, di qualcuno che deve convincere lo sfortunato di passaggio a non aprire quella porta, a scappare da un inferno dal quale lo separava solo una soglia, senza tradirsi e, automaticamente, condannare l’ignaro interlocutore.

Ma lui, niente. Stolido e testardo, si permise pure di rilanciare. 
«Scusi eh, se glielo dico, ma guardi che le conviene, e le conviene parlare con me, perché questo tipo di offerte sono disponibili solo nel corso delle nostre attività porta a porta, e…»
«No, stammi a sentire tu. Tu, col cartellino stampato con la Canon a getto da 30 euro, dopo che hai ritagliato un logo qualunque con qualche programmino insulso tipo Paint, e aggiunto un nome che forse non è nemmeno vero e una qualifica in inglese che non sapresti nemmeno spiegare a te stesso. Tu, che magari con quella biro scadente che ti porti appresso farai dei segnettini sul muro del pianerottolo, per dare indicazioni a altri piccoli truffatori come te. Tu, che speravi ti aprisse una vecchiettina ignara da fregare ben benino, e che invece hai trovato me: sempre meglio del signore del piano di sopra, ex partigiano incazzatissimo che, secondo me, se solo ti vede t’insegue con la doppietta che tiene nel portaombrelli di fianco alla porta. Tu, col tuo taglio di capelli inguardabile e i brufolini che infestano la ricrescita sulla nuca. Ora prendi, ti volti, scendi le scale e te ne vai di qua, oppure aspetti che chiami la polizia. O che perda la pazienza sul serio.»

Da dove mi fosse uscito quel monologo da film, non lo so nemmeno io. So solo che dentro di me qualcosa stava sghignazzando, e che mi sembrava di sentire la cimice che ridacchiava sdraiata sul tavolino del bagno.

Ruggero Sanvito, paonazzo in volto, si voltò senza dire una parola, né emettere un suono. Se ne andò in apnea, quasi fluttuando, tanto morbida e veloce fu la sua uscita di scena. In 28 anni, non si era mai sentito così umiliato, nemmeno quella volta che la madre entrò in salone nel bel mezzo delle notte, e lo sorprese mentre se lo menava con vigore di fronte a una bionda con troppo rossetto e troppi pochi vestiti che mugolava: “Dai, chiamami.” 
Tornato nell’appartamento che divideva con due fuorisede calabresi perennemente fatti di hashish e una lesbica militante altrettanto perennemente arrabbiata, Ruggero prese una solenne decisione: basta truffe e pasticche, basta città. Era arrivato il momento di accettare l’offerta dello zio Arnaldo, che da tempo lo tartassava perché andasse in campagna a lavorare con lui. 
Al mattino successivo, però, i suoi buoni propositi vennero spazzati via da una robusta striscia di coca, rinvenuta casualmente nel porta occhiali da sole che non apriva da quasi tre mesi, mentre cercava dei tappi per le orecchie per contrastare i mugolii inequivocabili della lesbica nell’altra stanza, capaci di turbarlo profondamente per ragioni che non aveva ben chiare nemmeno lui, e che non avevano nulla (ma proprio nulla) a che fare con l’eccitazione sessuale.

 

Ignorando una vaghissimo senso di colpa, che aleggiava nell’aria ma si perdeva nella mia euforia come un peto dentro un negozio di fiori, mi diressi verso il bagno.

«Hai visto? Gliene ho dette quattro, a quello scocciatore parassita!» esclamai, più fiero di me stesso di quanto fosse lecito, o logico, esserlo. 
Il mio entusiasmo mutò subitaneamente in perplessità quando mi accorsi che, tra il flacone di shampoo all’olio di argan e il tubetto di crema per il viso all’avena e cera d’api, non c’era nulla. 
Ci mancava poco che iniziassi a voltarmi perplesso per il bagno, proprio come Vincent Vega quando entra in casa di Mia Wallace strafatto, sente la sua voce ma non ne capisce la provenienza: fu solo il pensiero inconscio di poter diventare un meme dell’internet a trattenermi dal farlo.
Perlustrai rapidamente il bagno con lo sguardo: magari la cimice si era ribaltata ed era caduta in terrà; magari, con uno scatto di reni (ce li hanno i reni, gli insetti?) si era abilmente raddrizzata e, con fludità di movimento degna di un’artista marziale, aveva aperto le ali e si era librata in volo fino alla mensolina sotto lo specchio, o magari al davanzale della finestra, inebriata dal pensiero della libertà che era lì, a un passo. 
E se si fosse offesa perché avevo detto “parassita”? Le cimici sono parassiti?

Non la vidi da nessuna parte. D’altronde, non potevo nemmeno chiamarla: mi sarei sentito un cretino, o a un passo dal ricovero. Come l’avrei dovuta chiamare, poi? “Cimice”?;“Signora cimice”?; “Ehi, tu”?; “Cosa”?

Così, rimasi lì intontito, manco avessi preso un destro da Mike Tyson, la bocca un po’ aperta a mo’ di un Gasparri qualunque. Poi, mentre l’arbitro stava per decretare il mio KO tecnico, uno sfrigolio dell’aria nel punto dove prima era l’insetto, una sorta di miraggio di calore senza calore, attirò la mia attenzione.

Mi avvicinai lentamente, allungai la mano verso quell’increspatura, e poi l’indice, teso in avanti come quello di Dio in quel quadro famoso di cui non ricordo mai il nome. La sommità del polpastrello urtò qualcosa d’invisibile, e duro, e l’increspatura dell’aria aumentò di frequenza, fino a rivelare il corpo grigio-verde della cimice. 
Che, a parte un leggero dondolio sul dorso, causato dalla spinta leggera del mio dito, era sempre nella stessa posizione. 
«Beh, che c’è? Stavo provando la modalità stealth,» la sentii dire, una punta d’imbarazzo nella voce. «Funziona da Dio, non ti pare?»
Da parte mia, non ritenni di fare domande, e resistetti a fatica alla tentazione di colpire il corpo duro della bestia con una bella schicchera, di quelle che si assestavano alle biglie dei ciclisti sulla spiaggia quando eravamo bambini.

 

Stava iniziando a fare buio, e me ne stavo sprofondato sul divano, inglobato dai cuscini che si adattavano perfettamente al mio corpo, e mi accoglievano morbidamente come un enorme e tiepido marshmellow. 
Davanti a me, sullo schermo della tv piatta ma non troppo, San Andreas e le sue magnifiche e colossali catastrofi, seconde per scala e magnetismo ipnotico solo ai bicipiti di The Rock e alle tette di Alexandra Daddario.

Al mio fianco, adagiata su un vecchio atlante geografico, rispolverato per l’occasione e posato sulla seduta di destra del divano, la cimice manteneva la sua posizione rovesciata. Si era fatta sbriciolare lì di fianco una patatina, e ne afferrava i pezzetti microscopici con una zampetta, dondolandosi sulla schiena con agilità; avrebbe voluto le lasciassi cadere vicino anche una goccia di birra, ma avevo ritenuto saggio non accondiscendere alla richiesta. 
Durante le scene più rumorose e spettacolari del film, le zampette sottili si agitavano nell’aria più del solito, e nei momenti di massima tensione, andava in modalità stealth, e non la vedevo più. Ma avevo già imparato a non farci caso più di tanto, e la ignoravo, ferendo così il suo mal celato esibizionismo.

«Senti, che facciamo,» mi disse a un certo punto con aria ammiccante, «ce la ordiniamo una pizza?» .
Non so come, ma sapevo che stava sorridendo.