Emilia Bianchini, E se non fosse che chimica?

Motivi per cui questo racconto mi ha conquistato immediatamente: per il tema (l’arte contemporanea, molto poco trattato in narrativa), per la sicurezza nella stesura, per il carattere forte e personale dei personaggi e, soprattutto, perché trovo stupefacente che sia un’autrice esordiente ad averlo scritto. Emilia Bianchini, almeno a giudicare da questa singola prova, è una debuttante che promette molto bene. Nel suo racconto troviamo un fotografo d’avanguardia che utilizza la propria madre come modella inconsapevole, un padre assente, un amante non desiderato e il cicaleccio di un mondo elitario fatto di critici, galleristi e semplici snob. Un piccolo universo che Emilia è capace di condensare molto abilmente nel precipitato di poche pagine.

E SE NON FOSSE CHE CHIMICA?

Io, a pensare, mi stendo sul letto.
Penso ai vestiti che indosserà mia madre.
Intanto massaggio una parte del mio corpo. Un braccio, l’incavo del gomito per esempio, oppure l’ascella. Mi aiuta a scremare il pensiero e mi porta direttamente dove voglio arrivare.
Io mia madre la vesto e la svesto come un manichino di h&m.
Hanno organizzato una cena in mio onore. Ne ho approfittato per chiedere una dose di effervescente continuo: permesso accordato; un artista dura meno di un uomo, è una lotta contro sé stessi piuttosto, ma questi non sono pensieri da farsi, non è che quando diventi un artista capisci di più, non è così.
La mamma mi viene dietro come il più fidato dei soci. E io a lei devo tutto quello che sono. Non si tratta di debito di gratitudine, non ha nulla a che vedere con la riconoscenza filiale.
Il fatto è che il mio lavoro è lei.
E ieri, per la prima volta, ne ho sentito la forza come un corpo consistente e molto potente.
Ieri quelli importanti c’erano tutti. Federica, della rivista Artrend stava seduta tra Rosy (l’artista neozelandese) e Vittorio Viviani, direttore artistico di Studio One. Alla sua destra c’era Elly Vergani, principessa dei salumi nonché inventrice della Cell Generation, di cui io, e ripeto io, sono al momento l’astro nascente.
“Dali’s grandma” è l’ultimo lavoro di Rosi. E’ un bosco di lumache stridenti. Non capisco se siano occhi oppure vulve oppure semplicemente lumache ma, come ripeto, non è importante capire.
Accanto a Rosy stava seduta una donna con il cranio rasato e le sopracciglia pettinate a pallini.
-Tagliolini delle sette Leghe?- domandava il cameriere sporgendosi discretamente su ogni invitato.
Non ho potuto toccare cibo. Ogni cinque minuti, per tutta la sera, ho sorseggiato l’effervescente continuo, fino a quando lo stomaco è diventato una palla calda e dura dentro di me.
Dal centro il calore si è irradiato per tutto il corpo, in ogni singolo tessuto, tanto da riuscire a sentire gli occhi caldi le unghie calde, l’ombelico molto caldo il cranio caldo le lacrime calde…
Il cameriere non ha domandato una sola volta perché non mangiavo. Proseguiva, luccicante nell’abito tessuto di seta e fibre ottiche, con quell’andamento pattinato e silenzioso.
Viviana Felden, collezionista e neurochirurgo infantile, ha trascorso la serata china sul piatto. Ha spalmato ogni pietanza di confettura di limoni di Stromboli.
– Ne è morto uno sotto i ferri – mi ha bisbigliato Livio all’orecchio.
Viviana ha continuato a mangiare senza alzare la testa dal piatto.
– Come ti senti? – mi ha chiesto Micky.
– Normale – ho risposto.
E Micky: – Non sei eccitato?
Io:- Eccitato proprio no!
– La personalità dell’artista è sfuggente… – si è intromesso Giacomo Lenti.
– Sbagliato!- gli ha subito contestato Dennis – è semplicemente più complessa di quanto tu sia in grado di capire!
– Multisfaccettata? – ha cercato di indovinare Clara, l’assistente di Dennis.
– No Clara, non ci siamo ancora – le fa quello , paterno – è qualcosa che elude la forma….
– Come… un refolo? – ha detto Giacomo con aria ispirata.
– E’ un equilibrio direi… circostanziale, infinitamente mutevole e appassionatamente precario… -.
S’è fatto silenzio sulle sue parole.
Ho tenuto la faccia sul tondo del piatto. Ho guardato il mio pesce fisso nell’occhio. Tacevo. Aveva le scaglie opache di salsa, la testa un po’ storta, adagiato nel suo lettuccio speziato.
– Non ho fame!- gli ho sussurrato.
– Mi piace il tuo lavoro – mi ha detto Delicius.
So che avrebbe voluto dirmi: -Mi scopi? –
“No bella” sarebbe stata la logica risposta e invece :- Lo so, è bello – le ho detto.
– Non è bello, è pev-vev-vso – mi dice Gaspare Conti.
Trovo che sia più perverso come dice perverso.

La prima volta ho deciso di vestirla da ginnasta sovietica.
– Mamma, ti andrebbe di fare qualche foto? – le ho chiesto. Era un sabato pomeriggio e lei era seduta alla macchina da cucire.
– Con questo caldo? – ha risposto.
Aveva addosso un paio di mutante bianche ed un reggiseno. La mamma quando fa caldo si veste sempre così.
E’ stata una fortuna che la mamma soffra il caldo perché questo è l’abbigliamento base. Mutande e reggiseno. E’ da lì che si parte.
La mamma ha continuato a cucire ancora per cinque minuti.
Era una cucitura immensamente lunga quella che stava facendo e tutta dritta.
Solo l’orlo di una tenda può essere così lungo e dritto. Il polpaccio filava sul pedale con una tale velocità e da sotto veniva fuori un muscolo, una forma definita, solo un accenno e poi l’adipe si faceva fuori tutto il resto. La mamma ha un corpo diviso a tondi. Un tondo per il capo, due tondi per i seni un tondo per la pancia, uno o due tondi per il sedere, due tondi allungati per le gambe. E’ l’adipe che s’è mangiato via tutto. Persino la caviglia s’è mangiato via, l’adipe.

Il problema dell’effervescente continuo è che erode le pareti dello stomaco. Se ne consumi troppo, ovviamente.

A me il corpo della mamma piace. Un corpo così può indossare qualsiasi tenuta.
Ho disegnato la tutina ginnica. Ho ritagliato il cartamodello. E la mamma l’ha cucita a macchina.

Mentre cuciva ha cominciato ad insultare il tessuto: – Fa schifo questo tessuto! – urlava, – Si smaglia! –
– Porta pazienza, mamma – cercavo di calmarla, – è questo il tessuto che ci vuole! –
La mamma ha dovuto mettere a punto la sua biancheria intima. Le mutande di cotone venivano fuori dalla tutina e il reggiseno era troppo ingombrante . Poi le calze, quelle giuste, spesse ; è stato difficile trovarle e lei assolutamente non voleva farsi fotografare a gambe nude.
Le ho stretto i capelli in uno chignon, ci ho messo quasi cinquanta forcine per farlo stare su. L’ho coperta con una vestaglia rossa e con l’auto siamo andati al palazzetto dello sport.
E lì, lei ha posato per me.
La mamma non mi ha mai chiesto perché lo facevo.

Ieri sera c’era Anche Andy.
L’abito trasforma la mamma in un eroe.
“Trasfigurazione” l’ha definita Celio Virzì.
Andy mi si è seduto accanto. S’è portato dietro il bicchiere con il succo di fragola e l’essenza di pino.
Io continuavo con l’effervescente continuo, un sorso dopo l’altro. Lo trattenevo in bocca il più a lungo possibile e solo quando incominciava a bruciare lo buttavo giù. Il calore ti indica dove è in ogni momento, e resta così a lungo, da farti dimenticare qualsiasi altra cosa. Se ne bevi troppo ti viene la febbre.
Andy ha i capelli a onde più belli che io abbia mai visto .
Fanny Blankers portava i capelli così. Per fotografare la mamma ho ricostruito precisamente la tenuta di Fanny, e ne ho studiato attentamente la capigliatura.
Fanny con il numero seicentonovantadue che la portò alla vittoria nei cento metri indossava una maglietta bianca con il colletto e un paio di pantaloncini a palloncino e camminava vittoriosa sotto la pioggia con in mano un mazzo di fiori infangato.
Di tre quarti, -dava all’obbiettivo un braccio, una spalla e parte del torace- ecco Fanny “l’ olandese volante”: ho scattato.
Andy lo sa che impazzisco per le onde di Fanny. E non dico che non sia un gioco riuscito, quella capigliatura, a me, un’emozione la fa sempre venire.
Andy stava zitto ieri sera. Fa parte del gioco anche questo. Ma io avrei voluto che mi parlasse . Mi sarebbe piaciuto sentire la sua voce mentre beato mi godevo l’effetto di nuvola dell’effervescente continuo. Avrebbe potuto dirmi: “mi è molto piaciuto quello che hai fatto” o qualcosa così, invece lui voleva andare al sodo, era nervoso, carico di tensione.
– Ne vuoi un po’? – gli ho chiesto allungando il bicchiere.
– Sei strafatto… – mi ha risposto e ha cambiato posto.
– E lei dov’è? – mi ha chiesto Violet da dietro i suoi veli, -non è voluta venire?
E’ vero, avrebbe potuto esserci se le fosse venuto in mente. Ma non ci abbiamo neanche pensato a una simile eventualità. Il fatto che io sia qui è una questione di lavoro.
La mamma diceva: – Devi trovarti un lavoro -.
E per un periodo io ho fatto il panettiere. Quando tornavo lei sedeva al tavolo e placida beveva il suo caffelatte.
Io tiravo fuori il sacchetto del pane ancora caldo e lei mangiava un panino subito e gli altri li metteva nel ripostiglio del pane.
– Se non ti senti non andarci – mi diceva quando le sembravo stanco -troverai qualcosa d’altro -.
A me del mestiere piaceva il grembiule. La pettorina specialmente, sui peli neri e ricciuti del torace, tutt’altro da quelli radi e ispidi della schiena.
Un mattino ha nevicato. Dopo il lavoro sono uscito portandomi dietro il bianco fragrante del dentro nel bianco lì fuori, e poi non ci sono più andato.
– Meglio così – ha detto la mamma – tutto quel pane era troppo -. E poi dopo qualche giorno: – Devi trovarti un lavoro.
Così, quando le ho chiesto di posare per me, non ha detto nulla.
La mamma, con i pantaloncini dell’Adidas e la canotta di stretch, le calzine sottili e le scarpette da velocità, ai blocchi di partenza del campo sportivo. Abbiamo dovuto farla e rifarla, quella foto. Volevo vedere il suo corpo protendersi in avanti, volevo vedere il muscolo del polpaccio venire fuori dall’adipe.
– Non ce la faccio – diceva lei e io invece a dirle: – Ce la fai. Certo che ce la fai -.
Io sono sempre molto paziente. Non grido mai, non potrei, non mi permetterei mai di maltrattarla.
All’inizio mi diceva:- Questo non si può. Vedi, non è che non voglio, ma questo non si può davvero fare -.
E io insistevo, con dolcezza, sempre vicino al suo limite, con dedizione, e lei allora faceva un passetto alla volta, migliorandosi sempre.
A volte la mamma mi fa: – Facciamone un’altra, posso dare di più -.
Per fare il calciatore aveva lasciato crescere i peli sui polpacci.In testa le avevo rasato i capelli. E lei improvvisamente era scoppiata a piangere.
E’ meglio che non sia voluta venire.
In fondo questo è il mio lavoro. Nessuno si porta dietro sua madre al lavoro. Se venisse anche lei non mi sentirei libero, e neanche lei lo sarebbe.
La mamma ama stare sul letto a leggere, quando non ha altro da fare. Legge libri gialli, ma siccome non ha abbastanza pazienza di arrivare fino in fondo, salta di qua e di là attraverso la trama, si fa un’idea di come va la storia, poi ritorna su alcuni punti che trova particolarmente interessanti.
Uno dei punti sui quali ritorna volentieri sono le storie d’amore. Si diverte a leggere i dialoghi e poi fa i suoi commenti: -Lui è un porco! Lei è disonesta! -.
Dai personaggi femminili pretende un comportamento corretto e amorevole. Le colpe delle donne in fatto d’amore sono più gravi di quelle degli uomini.
A un certo punto, ieri sera, Andy mi ha fatto segno di seguirlo nel cesso.
Elly Vergani s’era fatta sotto con Roby dei Pink, lo aveva bendato con un tovagliolo e gli faceva annusare le mani.
Vorrei proprio sapere dove ha messo le mani prima di fargliele annusare. Chissà com’è andata a finire.
Andy mi ha spinto contro la parete di fronte allo specchio.
– Andy, Andy – gli ho detto , (ama sentirsi chiamato per nome). Penso che sia un grande perché sa concentrarsi. Dall’alto vedevo soltanto la sua capigliatura ondeggiare. La fantastica capigliatura di Fanny . Lascio andare la testa in avanti e mi godo Fanny che mi entra dentro come un onda, come un onda che avvolge un sasso. E la capigliatura di Fanny-Andy è un’alga che ondeggia nel mare.
Io la mamma non la metto a disposizione del pubblico.

Questo pomeriggio iniziamo una nuova serie.
“Sport acquatici”. Sarà una bomba.
La mamma si sta preparando.
A più tardi.

Epilogo

Sono steso sul letto.
E’ successa una cosa. Quando siamo tornati a casa, e la mamma indossava la muta e la maschera la portava ancora in testa, aveva tolto solo le pinne perché è lei a guidare la macchina, io non ho mai imparato a guidare, beh, quando siamo tornati a casa seduto sul divano c’era mio padre.
Stava lì come se non fosse mai andato via, su quel pezzetto di divano che era incontestabilmente il suo pezzetto. Il divano allora stava davanti alla finestra. Il suo culo grasso l’aveva piazzato lì dove lo piazzava sempre, manco ci fosse stato lo stampo.
Quando ha visto la mamma così ha cominciato a ridere.
Vibrava tutto per il gran ridere.
Noi non abbiamo detto niente. Ognuno è andato in camera sua.
Per un po’ ho continuato a sentire ridere. Poi non ho sentito più niente. Ma non sono andato subito a vedere. Anche la mamma ha fatto esattamente come se non fosse successo niente. E’ andata in camera sua, come fa sempre quando torniamo da un servizio. Si è spogliata, ha riposto i vestiti. Poi probabilmente si è stesa sul letto a leggere.
Quando sono uscito dalla mia stanza- sarà passata una mezz’oretta, mio padre non c’era più. Anche la valigia che aveva aperto sul pavimento era sparita. Per un attimo ho pensato che avrei potuto reclutare anche lui, ma non l’ho fatto . Penso che tutto sommato fosse un’idea abbastanza stupida.
Erano più di due anni che non lo vedevamo, e quasi uno che non ci spediva più i soldi.

– E’ speciale lo sai – mi ha detto Tony ieri sera – E’ grande davvero, tu ancora non ti rendi conto di cosa significhi per te -.
– Non correre – ho ribattuto – può darsi che da domani non riesca a combinare più niente -.
– Vedrai che non sarà così… – fa lui -ho in mente la galleria di Dennis, hai presente il pubblico… e i soldi. Tu continua a fare quello che fai, niente di più; prometti bene, prometti… -.
A me sembra che Tony sia troppo avanti, che abbia qualche indizio che io non posseggo, che sappia capire il futuro, il mio intendo… è talmente sicuro e questo fa traslare il mio margine, mi trascina in là, mi fa vacillare.
– Sei soddisfatto? – mi ha chiesto, – credo che a ragione tu possa sentirti soddisfatto -.
– Sono contento – gli ho risposto, visto che stava lì ad aspettare.
– Ottimo… ottimo – mi fa, – continua così! -.
La piscina era azzurra di piastrelle e stinta e la mamma nera stesa sul fondo: l’ho presa dall’alto e da dietro e le forme della sua carne contenute dalla muta la facevano sembrare immersa in un liquido fermo, deformata perennemente, un liquido che ha dentro le qualità del tempo; c’era anche Cristian il mio piccolo bastardo che correva intorno al bordo e abbaiava ma il salto nel secco non lo poteva fare.
Quando l’ha visto sul divano Cristian si è fermato ai suoi piedi e ha cominciato a scodinzolare.
– Ciao bello, ciao! – diceva mio padre, e Cristian gli è saltato in grembo; noi nel frattempo ci chiudevamo la porta alle spalle. Mi piacerebbe un finale, è indubbio, la casa ad esempio tutta intera in teleobbiettivo con tutto dentro: la mamma, mio padre che raccoglie la sua cazzo di valigia e fa per andarsene ma rimane incastrato anche lui, il giardino che nessuno cura e che si portasse via pure me , via, dentro a un’immagine fotografica, via senza tragedie, e allora mi dico mah sì, ben venga Dennis e la sua galleria e la gente che spende per comprarmi le foto, mi piace quest’errore di fondo, il dettaglio non spiegabile che fa muovere il mercato.
Steso sul letto con sopra Andy: – Ciao palla di neve – mi fa e comincia a succhiarmelo.
Mi piacerebbe rimanere impresso sulla lastra fotografica insieme a tutto il resto, come ha già ho spiegato prima, mi piacerebbe che avvenisse quando Andy che mi ha fatto venire si allunga su di me col suo corpo morbido e dischiude le labbra per farmi colare in bocca il mio seme.
Mi piacerebbe che Cristian venisse insieme a noi e restasse con la bocca aperta e la sua lingua rosa come un bocciolo a penzoloni e quegli occhi allegri da cane, che fosse per sempre così.