ALBERTO FORNI, “In viaggio con Nanni Balestrini”

ALBERTO FORNI

Comincio a pensare che dovrei ufficialmente dedicare una rubrica fissa per i racconti di Alberto all’interno di‘tina, dal momento che ne compare uno praticamente in ogni numero… la verità è che Alberto non si dedica mai a progetti impegnativi (tipo: un romanzo), però scrive spesso, storie brevi che rispecchiano le sue esigenze di tempo e di entusiasmi passeggeri. così, mentre altri amici mi consegnano un pezzo e poi spariscono per mesi, persi dentro la stesura di autobiografie monumentali o saggi di musica pop, Alberto ogni volta ha qualche nuovo racconto pronto. e a me paiono sempre meglio, per linguaggio, intensità, ironia. Questo è il brano che ha scritto al ritorno dal convegno “ricercare” di Reggio Emilia. io lo trovo semplicemente irresistibile.

In viaggio con Nanni Balestrini

Le conclusioni erano state tirate, virgola dopo virgola e punto su punto, il buffet spazzolato fino all’ultimo chicco di riso, fino all’ultima goccia di lambrusco, strette le mani, scambiati i saluti, il convegno sulle nuove scritture era proprio finito.
Eravamo tutti eccitati, ci scambiavamo indirizzi, promesse di rivederci, risentirci, fare qualcosa insieme. Ma appena fuori della porta c’era un’aria da fine colonia, l’odore della scuola dietro l’angolo, e il contrasto metteva un po’ paura.
Ho camminato veloce per il corso di Reggio Emilia, erano le due di domenica pomeriggio, non c’era un cane, non c’erano nemmeno le biciclette. Guardavo le vetrine grasse, opulente, che trasudavano dischi e salami, vestiti. Sono arrivato alla stazione in anticipo, come sempre. Sul terzo binario, in attesa del mio stesso treno, un giovane scrittore piemontese, che aveva letto un suo testo durante il convegno, stava attaccando bottone con la statua-musa.
La statua-musa era una critica d’arte che aveva partecipato allo spettacolo teatrale della sera prima e quella stessa mattina, durante il dibattito conclusivo, si era prodotta in un intervento disarticolato di stampo neo-femminista.
La statua-musa, in pratica, aveva detto che lei era una critica d’arte e non un critico d’arte, e lo aveva detto così tante volte che sembrava pensasse che gli uomini, oltre che stronzi, fossero pure sordi. Inoltre aveva detto che se, come avevano fatto notare i critici, la letteratura stava andando verso il corpo, lei come statua-musa aveva portato il corpo verso la letteratura. Su questo nessuno aveva niente da ridire. Il vero problema mi sembrava piuttosto il viso: dai lineamenti contorti almeno quanto i pensieri da lei espressi. Sembrava in tutto e per tutto una di quelle persone uscite da un coma. Io ne ho conosciute alcune e non mi è sembrato che si riprendessero mai.
Il giovane scrittore cercava di intortarla, epperò si vedeva che lui aveva più dimestichezza con le due dimensioni della pagina scritta, perché la contraddiceva continuamente. Forse voleva dimostrare la sua indipendenza di pensiero, indipendenza da quel corpo prorompente che avrebbe piegato anche il più militante dei critici. O forse il giovane scrittore non ci sapeva fare e basta.
Io me ne stavo da una parte, zaino e valigetta buttati per terra, sperando che a quei due non venisse in mente, con tutto il tempo che c’era stato a disposizione, di fare conoscenza con me proprio ora.
Quando è arrivato il treno ho camminato verso la testa, mettendo un paio di vagoni fra me e loro.
Mentre stavo salendo mi è apparso il sommo poeta Nanni Balestrini. Durante il convegno non ci eravamo presentati, eppure lui mi ha dato uno sguardo così, come a dire so che tu sai. Io ho fatto finta di niente con quello sguardo così, come a dire so che lei non sa. E quello che il sommo poeta non sapeva era che io l’avevo portato alla maturità.
Fuori programma naturalmente e senza aver letto nemmeno una sua poesia, ma solo un brano di un saggio del Manacorda.
All’epoca le poesie in sé non mi interessavano molto, se amavo i poeti era per tutt’altri motivi, quelli maledetti ad esempio perché Rimbaud era scappato in Africa a vendere armi e Baudelaire fumava oppio.
Nanni Balestrini e gli amici suoi del gruppo 63, davanti al Pascoli e al Manzoni, mi erano sembrati dei gran rivoluzionari. Tuttavia visto così, con i capelli bianchi e la riga precisa da un lato, una polo verde e dei calzoni beige, poteva sembrare un pensionato. Invece era Nanni Balestrini, il poeta che avevo portato alla maturità. “Io l’ho studiata a lei” avrei voluto dirgli “anche se, ora come ora, non saprei dirle niente di più preciso”. E questo sommo poeta viaggiava con me, in seconda classe, però nello scompartimento non-fumatori. Questa era l’unica differenza che ci separava in quel momento; la vita sa essere veramente democratica quando vuole.
Eravamo a portata di vista, sembrava un’ottima occasione per conoscerci, purtroppo lui si è messo a leggere un giornale. L’ho imitato come un discepolo scrupoloso, tirando fuori un libro, immaginando che prima o poi avrebbe dovuto alzare lo sguardo e vedendomi così impegnato avrebbe pensato: “Questo ragazzo che era al convegno dev’essere proprio bravo, guarda quanto legge, voglio proprio conoscerlo”. O al limite mi aspettavo un cenno col capo, o con la mano, anche piccolo, anche un’alzata di spalle, un segno, qualunque. Di tanto in tanto alzavo la testa dal mio libro, allo stesso modo di chi, troppo immerso nei pensieri suscitati dalla lettura, ne perda a volte il filo e guardando verso l’alto o all’orizzonte cerchi di riprenderlo. In realtà lo facevo solamente per controllare Nanni Balestrini, che però continuava a leggere il giornale, incurante dei miei segnali. Dopo una decina di minuti mi son reso conto che il sommo poeta si era addormentato. Ho messo via il libro e prima di cedere, a mia volta, al sonno mi sono domandato: ma lui sognerà normale? Perché io, ad esempio, quando gioco troppo ai videogames poi mi sogno per tutta la notte macchinine che sfrecciano o robot giapponesi che se le danno di santa ragione. Così, mi son detto, lui sognerà solo versi poetici? Il suo sonno sarà un dipanarsi continuo di strofe, assonanze e liquide melodie di parole?
Quando mi sono svegliato eravamo a Piacenza, Nanni Balestrini non c’era più, al suo posto un ragazzo con gli occhiali scuri, avvolgenti, e una maglietta che diceva qualcosa sulla California.
Che fine aveva fatto il poeta che avevo portato coraggiosamente alla maturità senza mai leggere? Era sceso a Piacenza? E per fare cosa? Era andato a salutare qualche amico dei quaderni piacentini? C’era dentro anche lui, non c’era, erano amici, nemici, li amava, li odiava? Chi lo sapeva, i quaderni piacentini non erano nel programma, non erano nemmeno nel pezzo del Manacorda che avevo studiato, quindi non potevo saperlo.
Mi sono riaddormentato subito, un po’ deluso.
Il convegno doveva avermi consumato un bel po’ di energie nervose, se è vero che mi son svegliato solo a Milano Rogoredo.
Ho sgranchito le gambe, bevuto un sorso d’acqua e proprio mentre stavamo entrando nella stazione centrale mi è riapparso il sommo poeta.
Diavolo d’un diavolo d’un Nanni Balestrini, aveva solo cambiato di posto! Si era eclissato ai miei occhi per mantenere il suo splendido isolamento dal mondo, o forse solo perché lì non batteva il sole.
Ma ormai era troppo tardi per mettere in piedi una qualsiasi strategia, i passeggeri prendevano posto nel corridoio, trascinavano valigie, pacchi, anch’io mi sono messo in moto.
Giù dal treno ho camminato verso l’uscita con grande dignità, senza nemmeno la tentazione di voltarmi indietro. Il mio destino ormai era chiaro, era andata così e basta, probabilmente sarei morto senza essere riuscito a conoscere il poeta che avevo portato alla maturità. Ben mi sta, così imparo a non leggerlo neanche.