Alberto Fornari, Odio il brodo

Malgrado la quasi perfetta omonimia, questo Alberto Fornari non ha nulla a che vedere con lo storico collaboratore di ‘tina Alberto Forni. Si tratta invece di un autore esordiente, che sinora ha pubblicato solo alcuni testi in un paio di antologie. Del racconto che mi ha inviato sin dalla prima lettura mi aveva colpito molto lo stile, l’uso degli stessi termini ripetuto, l’ossessione per il tempo, la brutale onestà di certe espressioni. A mio parere conteneva una parte finale un po’ debole e gli avevo scritto consigliandogli di rivederla. Con mia grande sorpresa, Fornari me l’ha rimandato in una nuova versione nella quale un paio di righe sostituivano miracolosamente tre pagine che aveva eliminato. La prova che quando un autore ha voglia di confrontarsi, di lavorare sui propri testi, di mettersi in gioco, si possono ottenere anche ottimi risultati.

ODIO IL BRODO

L’amore ha i suoi giri buffi. Fatelo dire a me, che sono sposato da dieci anni, mica uno. Mia moglie è la mia tasca interna. La conosco da quando ho vent’anni. Si può dire che siamo cresciuti insieme. Che abbiamo deciso che volevamo seguire un percorso. Un percorso di vita comune. Queste sono le promesse degli uomini. E la mia ambizione sempre stata quella di essere uguale agli altri. Io ci credevo nelle promesse.
Mia moglie ha il culo largo. Non che io ne faccia una tragedia: ce l’ha sempre avuto largo; ormai mi sono abituato. Mi sono messo insieme a lei pensando che comunque bastava un po’ di sport, una dieta. Sono quelle cose che fai da ragazzo, quelle storie a cui non dai importanza. E poi ti ritrovi lì, a passeggio la mattina presto o la sera tardi nel parchetto sotto casa, e ti senti esattamente come il cane di cui reggi il guinzaglio. Gli anni sono volati via e tu sei ancora convinto che stai ballando in una discoteca la domenica sera. Sei ancora convinto di avere vent’anni, perché il tuo orologio biologico s’è fermato ai tempi in cui hai conosciuto lei. Settimane bianche or sono. Sembra ieri. Ti ha sempre fatto pena sentirla dire al cinema, questa frase. Eppure la stai pensando tu. Sono momenti strani della vita: hai sempre disprezzato tutte la persone di quel periodo, eppure invochi, implori, scongiuri una rimpatriata in pizzeria. Sono momentacci. Lasciatevelo dire da me, che sono dieci anni che sono sposato.
Mica uno.

Non ho mai sospettato nulla di mia moglie. E’ una di quelle che, pur di non tradirti, ti sembra che preferiscano parlarne, leggere libri specializzati, fare terapia di coppia. Te la immagini là in topless in vacanza, con te che lavori in città e ci parli al cellulare quando hai tempo e, appena riappendi, ti viene voglia di fare gli straordinari. In agosto. Ogni volta che pensi a lei, la vedi camminare con le pantofole che strisciano sul parquet di casa. Poi pensi al sudore che ti è costato quel parquet. Hai davanti il sorriso del tuo figlio settenne in foto e lo ami talmente tanto che non vuoi che ti veda così (aspetterò qualche giorno).
L’odio per mia moglie arriva di colpo e mi divora. L’odio per mia moglie, è dovuto anche al fatto che non ho mai sospettato di lei. Se mio figlio mi odiasse da un po’, sarebbe colpa mia. Se mio figlio mi odia, penso che devo dividere la colpa con lei.

Mia moglie è sfiancata come Budda in pensione. Medita pure. Ci si impegna uguale. Se hai cinquant’anni, ti capisco: certezze? A puttane! Se ne hai trenta, oltre alla giovinezza, hai anche qualcosa che non funziona. Intendo dentro di te. Dovevo capirlo dalle televendite, cristo: troppi contratti; troppi assegni. Mia moglie comprava tutto senza pregiudizi di sorta e senza metodo o bisogno. Qualche insoddisfazione nascosta doveva pur esserci. La mia casa, anche senza pentole, non soffriva di solitudine. Io, anche con le pentole, ogni tanto sì.
Amavo mia moglie come il caffè della mattina. Senza di lei sarei come un animale in letargo, ammesso ch’io non lo sia già ora. E’ lei le mie pantofole. E’ lei l’odore del mio caffè lungo. E’ lei il tappeto sotto il water. E’ lei che, da qualche mese…

Ho conosciuto mia moglie a vent’anni. L’ho sposata a ventitre. Amarla, in un certo senso, era una cosa normale. Anche lei era normale.
Odiarla mi viene un po’ più difficile. Non che, appunto, mia moglie fosse così diversa dalle altre. Il pesce il venerdì. La messa la domenica. Crema sui fianchi e grembiule da casa.
Ma non so…mia moglie era la cenere spazzata via da terra, era il mio calzino bucato quando non lo era più. La cruna dell’ago in cui infilare la mia passione allentata. Era il mio lago.
Acqua dolce. Calma piatta.

L’ho capito da un gesto, un attimo. A un tratto ho capito che non era più mio, o mio soltanto. Ho capito che i ravioli erano per me e per lei. Ma anche per lui. Per me e per lei e per lui. Sempre e comunque lo stesso brodo. Ma scaldato per una persona in più, stavolta. E’ questo che fa imbufalire: amare un semplice gesto appena sposati, vederlo diventare, piano piano, inevitabile abitudine, veder scivolare via il valore dell’amore racchiuso in quel gesto, per poi rendersi conto che quel gesto torna con tutta la sua forza evocativa, con tutto il suo amore dentro, dedicato stavolta a un’altra persona. Quello che mi fa odiare mia moglie, e mi rende intransigente verso di lei, è che non ho mai sospettato nulla; è che lei ha quella faccia da culo così tonda e insospettabile.

Lei, per me, è sempre stata il mio sguardo sui piatti, sulla sua mano che li appoggia davanti a me; una cosa che ti colpisce appena ti sposi, e poi la lasci lì, abbandoni il tuo stupore che diventa abitudine, poi noia; proprio come i giocattoli dei bambini. Questo è il mio matrimonio: la paura delle mie ragnatele; l’incertezza delle mie aspettative; stendere i panni da lavare in famiglia. Quelli sporchi. Quelli recenti. Il bianco totale è vicino, è lontano, si incunea, smottato dal vento di ciò che passione non è. E va avanti così.
A volte non vorrei essere al mio posto.
E poi c’è il problema di Matteo, nostro figlio. Tutto è cominciato da quando loro due sono tornati dal mare. Di colpo non ha più avuto voglia di uscire, di andare a giocare con gli altri bambini, di parlare con me e Claudia. Si è chiuso a riccio. Ha incominciato a crearsi un mondo di fantasia. A vivere nel suo microcosmo ovattato e sicuro: la sua stanza. Quella stanza che io e Claudia abbiamo arredato con tanto amore e che lui ha sempre adorato. Se dovessimo arredarla ora, sono sicuro che ne uscirebbe una cosa mostruosa, un patchwork di stili. Una stanza melange sulla tonalità del grigio. Ecco cos’è l’amore: feeling, telepatia, qualche invisibile compromesso e una montagna di coccole e di litigi per far pace. Eravamo appena sposati, quando abbiamo arredato quella stanza. Innamorati come due personaggi dei film. Ora siamo spossati. E la crisi di Matteo è stato un fulmine a ciel sereno. Talvolta va meglio; Matteo sembra tranquillo e rilassato. Poi, di colpo, da un giorno all’altro, cambia di nuovo.
Vedere Matteo in silenzio, con lo sguardo rivolto verso il basso, senza voglia di rispondere, in due parole è l’inferno del cuore. A sette anni bisognerebbe correre felici, altroché. Eppure niente. E’ andata avanti così per un po’, poi la situazione si è tranquillizzata. A quel punto io e Claudia abbiamo cominciato a fare finta di niente, abbiamo riprovato a far finta di amarci. E’ una cosa che mi fa vomitare e che capisco solo ora: ognuno era consapevole della propria ipocrisia ma non di quella dell’altro. Matteo sembrava guarire piano piano. Aveva ripreso a mangiare. C’era da continuare a fingere, almeno per lui. E anche per ingannare il coniuge. A volte mi viene da pensare che, dopo un po’ di anni, il matrimonio si riduca nello sforzo di sopportarsi vicendevolmente e di dare ai figli quell’amore viscerale che il nostro stomaco non riesce più a proiettare verso il consorte.
Tutto stava cominciando ad andare per il meglio.

Ma un giorno, a cena, ripensando a tante cose insieme, con la tranquillità di chi nulla sa e nulla può sapere, ho detto a mia moglie:
“Mi piacerebbe organizzare una pizzata con i ragazzi”
“Ma se le hai sempre odiate le rimpatriate!”
“Una volta tanto ci vuole. Potrò rivedere un sacco di gente”
“Li vedi ancora, quelli che ti interessavano: sei appena stato in montagna con Marco”
“Lasciamo stare la vacanza in montagna! Mi è venuta voglia di vedere anche gli altri, di sapere come se la passano. Chissà, ad esempio, che fine ha fatto Gigi, o Roberto, o Walter”
“Ma che ti frega, sono diecianni che non li vedi più!”
“Appunto.”
L’odio per mia moglie è come l’odio che si prova per l’amico che ti porti in montagna. L’amico a cui assicuri che farai passare una vacanza strepitosa; che si divertirà grazie a te. Quello che si mette completamente nelle tue mani. Quello che poi fa tutto lui, si sbatte da paura, ma, al contempo, si sbatte anche quelle che piacciono a te. Tu non fai un bel niente e ti rilassi. Lui si sbatte e se le sbatte. Tu rimani lì, abbronzato e inutile. E lui, durante il viaggio di ritorno, ti dice: ti ho visto fuori forma. Sposato, rispondi tu. Sfigato, pensa lui.
L’odio per mia moglie è quell’odio lì. E’ quello stesso odio visto in modo trasversale, perfino più doloroso. E’ l’odio per qualcuno che si pensava peggiore di noi e che, di colpo, ci supera. E’ l’odio per qualcuno che si pensava fosse un gregario e che invece ti fa capire che il gregario sei tu.
Il momento più difficile è quando vedo la sua mano girare il mestolo e far colare il brodo nel mio piatto. In quel momento immagino che il mio piatto sia quello di Walter, e comprendo che forse ha vinto lei.

L’uscita con il vecchio gruppo è stata organizzata in quattroequattrotto da me e Marco. Abbiamo tirato su quasi tutti. Non è stato difficile: quasi tutti ci siamo sposati, quasi tutti viviamo nel circondario, quasi tutti conduciamo uno stile di vita simile, quasi tutti non abbiamo queste gran cose da raccontare e preferiamo ricordare i bei tempi che furono. E’ stato un ritrovo di cloni d’annata. La nostalgia è stata l’unico punto saldo della serata. Walter si è divertito a ricordare le mie peripezie discotecare, il mio provarci e riuscirci con tutte, quasi a farmi pesare la mia attuale e prorompente calvizie, la mia pancia che ora non è più solo accennata, le mie rughe visibili anche ai miopi.
Walter è uno dei pochi che non si è sposato. Ai tempi avrei scommesso delle somme esorbitanti sul fatto che non avrebbe trovato una donna. Ora è tutto diverso. Walter non si è sposato per scelta. Ora è un uomo maturo e in forma, dimostra persino meno anni. Forse è il più piacente di tutti, sicuramente il più brillante. Non ha voluto dirci che mestiere fa. Lì per lì ho pensato si trattasse di un mestiere particolare, forse qualcosa di cui vergognarsi.
Poi il tasso di alcol presente nei nostri corpi è cresciuto a dismisura. La serata è terminata con i vari ed eventuali mal di testa e di stomaco. Non abbiamo più il fisico, non c’è altro da aggiungere. Poi ci siamo salutati con le lacrime agli occhi. Ci siamo promessi di tenerci in contatto, di ripetere l’esperienza positiva. Tutti finti allegri e ubriachi. Tutti consapevoli, se non in quel momento, perlomeno la mattina seguente, che da certi ritrovi è meglio stare alla larga.
Mi ha accompagnato a casa Walter, perché Marco se ne è andato con la sua nuova fidanzata. Abbiamo parlato per tutto il tragitto. Mi sono complimentato con lui per la sua forma fisica. Ricordo che non sono riuscito a scucirgli il lavoro che fa. Lui ha sorriso quando io, un po’ in imbarazzo, gli ho detto che mestiere faccio: sono un rappresentante di confezioni famiglia di ravioli e tortellini dai ripieni assortiti. “Perché ridi?”, gli ho domandato.
“Perché è proprio la mia marca preferita”
“Ma dai?- ho fatto io entusiasta- mia moglie li cucina da dio, qualche giorno ti invito”.
“Accetto volentieri.
“Del resto quando li provi, non puoi più farne a meno”- ho fatto io professionale e felice e poi, come un vero cretino, ho anche imitato il cretino che fa l’attore nella nostra campagna pubblicitaria, aggiungendo: “Soprattutto se li cucina mia moglie”.
“Vorrà dire che li assaggerò, un giorno o l’altro.”
“Puoi contarci”.
Poi Walter ha accostato l’auto sotto casa mia. Col senno di poi, mi rendo conto che Walter guidava e andava dritto alla meta senza domandare alcuna indicazione al sottoscritto. Non ho sospettato di niente. I ravioli, cristosanto, i miei ravioli!

Il giorno dopo ho raccontato la serata a Claudia. Sembrava abbastanza interessata. Faceva domande in continuazione.
“E di cosa avete parlato tu e Walter durante il tragitto?”
“Del più e del meno, più o meno. Pensa, non ha voluto nemmeno dirmi che lavoro fa. Magari si vergogna”.
“O magari è semplicemente un tipo riservato.”
“Chi, Walter? Dovresti vederlo, non lo riconosceresti: è cambiato di brutto, fa il brillante, lo spiritoso. Tutto tranne che riservato. Un’altra persona, te lo assicuro. Se lo vedessi, non ci crederesti.”
“E perché no? La gente cambia”-ha detto mia moglie, senza guardarmi negli occhi e togliendomi il piatto di sotto prima che io avessi finito il brodo. “Sì, pare proprio di sì”, le ho risposto io posando il cucchiaio. E poi ho aggiunto: “E comunque lo vedrai: mi sono permesso di invitarlo a cena, una volta o l’altra”
Da sette anni vendo ravioli da fare in brodo. Da un mese circa odio il brodo. Non è una coincidenza. E’ soltanto la mia nemesi.

Ecco che un giorno, di colpo, la consapevolezza si affaccia violenta alla finestra del mio cervello arrugginito. Una lama. Le cose vanno così:
decido di invitare Walter a cena da noi, avverto Claudia all’ultimo momento.
“Non puoi. Non ho abbastanza ravioli”- mi dice disperata.
“Non ti preoccupare, ce li ho io: oggi non ho venduto”- le rispondo con l’intento anche di tranquillizzarla.
Poi un tira e molla per me incomprensibile. Alla fine lei cede, esausta. Io sono felice e le assicuro che sarà una bella serata. Probabilmente interpreto male il suo: “Va bene, ti aspetto con i ravioli”, dato che mi sembra addirittura di sentirla entusiasta. L’euforia momentanea di quelli come me, è quasi sempre controproducente perché tappa le proprie orecchie e l’altrui bocca.
Walter viene a cena da noi.

Arriva e posteggia il coupè. Guardo dalla finestra mentre rispondo al citofono e lo vedo salire con una bottiglia e un mazzo di fiori. Da quando apro la porta, ci sono due minuti di calma in cui succedono queste quattro cose: stretta di mano tra me e lui e poi lui che lascia la bottiglia nell’altra mia mano; stretta di mano tra lei e lui con doppio bacio guanciale (e i classici come stai, come non stai) e poi lui che le lascia i fiori nell’altra mano (lei sorride imbarazzata).
Poi compare Matteo. Saluta beneducato e fuoripericolo. Walter si gira per salutarlo e lui ha un ghiacciaio che gli frana sulla retina. Io e mia moglie ce ne accorgiamo subito. Mi accorgo che anche Walter se n’è accorto. E’ un attimo che soffia il suo respiro gelido su di noi, come fosse una bufera di neve. Lo vedo che scappa in stanza, questo bimbo di sette anni con la rabbia in corpo, e capisco che ci risiamo un’altra volta, un’altra crisi. Domando scusa a Walter per assentarmi e andare in camera di Matteo.
Lo vedo lì, tutto rannicchiato sul letto. Mi avvicino. Mi dice che ha voglia di stare solo. Lì per lì penso che non ha voglia di vedere estranei.
Gli carezzo la testa e gli dico che se vuole posso portargli qualcosa da mangiare. Lui mi dice no, che magari più tardi, quando se n’è andato l’amico di mamma.
“E’ anche un amico di papà”- gli dico sorridendo, nell’ingenuo tentativo di tranquillizzarlo.
Lui mi guarda interrogativo, spiazzato, quasi che le mie parole l’abbiano potuto ferire, abbiano tradito la sua fiducia. E’ difficile gestire certe situazioni, pronosticare le sue reazioni. Aspetto, ma non dice più niente per tre secondi. Poi mi guarda e parla, con voce lamentosa: “Però al mare tu non sei venuto e lui sì”.
E’ un pugno in faccia che mi fa barcollare. Cerco di tenermi in piedi e di non tradire alcun tipo di emozione, sforzandomi di mantenere un tono rassicurante.
“Adesso riposati”-dico a bassa voce, poi percorro il corridoio che mi separa da Claudia e Walter con il cervello che mi funziona a intermittenza, a sprazzi.

La serata procede in lenta e snervante attesa della dipartita di Walter. Noto dell’imbarazzo, in lui. Non parliamo di Matteo. Quella scena ha influito sull’animo di tutti. Walter si congeda presto.
Claudia sparecchia e lava i piatti. Io vado a vedere se Matteo sta dormendo.
La luce è ancora accesa. Busso ma non risponde. Allora entro piano piano e vedo che sta dormendo. Mi avvicino lentamente per spegnere la luce che sta sopra al suo letto. Quando manca solo che prema il pulsante, do un’ultima occhiata a mio figlio: sul suo viso sono disegnate due strisce di lacrime secche.
E’ l’inferno del cuore, mi dico come al solito. E’ la guerra dei sensi che si dibatte dentro un bimbo. E’ la guerra tra me e Claudia che si sparpaglia nel prolungamento delle nostro corpo, nell’adempimento delle nostre antiche aspirazioni. E’ la palese discrepanza, visibile anche a occhio nudo e infante, tra la nostra famiglia e quella del Mulino Bianco. Non ho nemmeno la forza per piangere con lui. Non ho il coraggio di abbracciarlo.

Poi sono tornato in cucina. Claudia stava lavando i piatti. Si è girata, mi ha guardato.
“Come sta Matteo?”- mi ha chiesto.
“Sta dormendo”- ho risposto prendendo il guinzaglio- “Io scendo”
Claudia si è asciugata le mani, mentre io la osservavo chiedendomi chi fosse, e chi sono io.
Poi l’ho vista dirigersi verso camera di Matteo; ho visto il suo culone ballonzolare e ho capito perché Walter non voleva dirmi il suo lavoro: davvero un lavoro del cazzo; “come dire di no?”
Mentre ponevo questo quesito al mio cane e gli infilavo il guinzaglio, ho osservato mia moglie sculettare, focalizzando l’attenzione sui buchi della cellulite che si creavano e muovevano indomabili. Mi sono chiesto altre cose. Poi l’ultima, la più importante: è peggio lei che da qualche mese scopa con Walter pagandolo, o io che da anni mi scopo gratis mia cognata?

Penso che non ha vinto nessuno dei due. Che casomai abbiamo pareggiato. L’unico ad aver perso è Matteo.
Se mio figlio avesse iniziato ad odiarmi anni fa, la colpa sarebbe mia.
Se mio figlio mi odia, penso che devo dividerla con mia moglie. E continuare a dividere tutto. Casa. Vita. Ravioli in brodo.