Roberto Camurri, L’autoerotismo dei trichechi

I materiali per ‘tina giungono attraverso vari canali. Uno di questi è il consiglio di amici scrittori che mi segnalano esordienti interessanti. L’autore Ivano Porpora mi ha suggerito il nome di Roberto Camurri dopo averlo avuto come alunno di uno dei suoi corsi di scrittura creativa. Gliene sono grato perché si tratta di una scoperta di grande qualità.

Il racconto di Roberto è un esempio di misura. Attraverso pochi punti salienti riesce a rendere l’evolversi di un rapporto sentimentale e il senso di appartenenza profondo e doloroso che unisce una coppia. Dicendo tutto, senza dire troppo.

E come se non bastasse ha un titolo strepitoso.

Roberto Camurri, L’autoerotismo dei trichechi

Quando arrivo a casa da lavorare sono le cinque del pomeriggio, la chiamo, lei non risponde, salgo le scale e la trovo a letto, sta dormendo, le tapparelle ancora abbassate e lei nella stessa posizione di stamattina. La guardo tenendo le mani nelle tasche, non la sveglio, torno di nuovo giù dove raccolgo i suoi vestiti abbandonati sul pavimento, sulle sedie, sul tavolo. Faccio andare la lavatrice, poi lavo i piatti che riempiono ancora il lavandino. Mi faccio una doccia lunga e calda. Quando finisco, sta ancora dormendo. Mi chino su di lei, sul suo respiro pieno e profondo, sono ancora in accappatoio, sono le sette e fuori il sole è sdraiato sull’orizzonte, le bacio la fronte scostandole i capelli dal viso. I capelli non sono più viola, sono del loro colore naturale, qualcosa che ricorda la nocciola e tra le ciocche iniziano a spuntarne di bianchi. È ancora bella. Apre gli occhi e mi guarda che sembra stupita, sono le sette, le dico, tra poco dobbiamo andare.

 

La prima volta che l’ho vista ero a una festa di amici, una casa che sapeva di cibo fritto, di fumo stantio e portacenere non lavati. Nessuno si stava divertendo davvero, la musica usciva da un giradischi anni settanta e faceva cagare.

Ero uscito a fumare, era autunno, pioveva. L’acqua sbatteva e rimbalzava sull’enorme balcone, piante secche e moribonde si lasciavano annegare. Lei era lì, rannicchiata, aveva detto ciao. Ciao, le avevo detto. Avevo acceso la sigaretta e guardavo davanti a me, il palazzo di fronte, le luci accese dentro le finestre del palazzo di fronte.

Vuoi sentire una storia?

Avevo detto, sì.

Mentre iniziava a raccontare, un lampo l’aveva illuminata, stava sorridendo, indossava una salopette di jeans e un maglione rosso aperto e lungo, tirava vento e il maglione sembrava morbido come sembrava morbida lei. Aveva zigomi pronunciati e i capelli viola, le scarpe da ginnastica verdi. Non avevo mai visto così tanti colori addosso a una persona, era bellissima.

Quando il lampo si era spento, era rimasta la pioggia e il suo rumore, era rimasta la noia, la musica di merda, eravamo rimasti noi due.

Aveva iniziato a raccontare di quella volta che era andata a Valencia con le sue amiche, aveva detto che erano andate all’acquario, era bello, enorme, c’era poca gente.

Era ubriaca, su quel balcone, e io lo ero di più, sembrava potesse parlare per sempre e io che potessi ascoltarla per sempre.

A un certo punto, aveva detto, siamo arrivate alla vasca dei trichechi, c’erano un tricheco maschio e un tricheco femmina. Aveva raccontato che il tricheco maschio era eccitato, hai presente com’è il cazzo di un tricheco?

Avevo risposto di sì, ma non avevo idea di cosa stesse parlando, volevo solo che continuasse a parlare.

A un certo punto questo tricheco tutto eccitato si avvicina alla tricheca e lei niente, come se non le fregasse nulla di quella virilità, e allora lui si è fatto indietro, ritirandosi nel suo angolino. Strusciandosi sul vetro. Sembrava che volesse strofinare quella cosa contro la mia faccia che era l’unica rimasta immobile, l’unica a non pensare, che schifo. E sai cosa ha fatto poi il tricheco?

No, avevo detto.

Bè, tornato nel suo angolino si è preso il cazzo in bocca.

Mi aveva allungato una bottiglia mezza vuota di Vodka ed eravamo rimasti lì a guardare di fronte, oltre il balcone, ascoltando la pioggia e passandoci la bottiglia, bevendola a collo in mezzo alle sigarette. Eravamo rimasti lì a guardare le finestre del palazzo di fronte che si erano spente e quelle che si erano accese, a guardare le piante, annegate. A volte i palazzi di notte mi parlavano, quella sera, però, erano stati zitti. Ero ubriaco, dovevo andare in bagno, dovevo vomitare, lei aveva riso e io ero entrato cercando il bagno che era occupato. Mi ero vomitato sulle scarpe.

La mattina dopo mi ero svegliato sul divano. Mi ero messo in piedi, puzzavo di vomito e non sapevo come fossi finito lì. Ero uscito di casa passando sopra a corpi svenuti, nessuno con una salopette e nessuno con un maglione rosso. Fuori avevo infilato le mani nelle tasche incamminandomi verso casa. Pensavo a lei che non sapevo come si chiamava.

La seconda volta l’avevo vista nei corridoi dell’università, le avevo detto ciao, lei mi aveva guardato e non aveva detto nulla, io avevo aggiunto uno scusami.

Per cosa? Aveva chiesto lei.

Per la festa.

Ah, aveva detto, sei tu.

Sì, ero io.

Le avevo offerto un caffè, al bar, le avevo detto, quello delle macchinette fa schifo. Mi aveva seguito e, senza guardarci, avevamo attraversato la strada, lei era sempre bellissima. Pensavo, mentre rovesciava lo zucchero nel suo caffè, che nessuno al mondo avrebbe rovesciato lo zucchero come lo stava rovesciando lei, mi sarebbe bastato guardarla per sempre, le avevo chiesto il nome, aveva detto di chiamarsi Barbara, io le avevo detto il mio anche se lei non l’aveva chiesto, l’avevo guardata allontanarsi lungo il marciapiede mentre mi accendevo una sigaretta, poi avevo iniziato a rincorrerla, le avevo detto ehi, lei aveva detto ehi, l’avevo guardata negli occhi che erano azzurri, in attesa, dimmi, aveva detto, ecco, non è che magari ti andrebbe di vederci, che so, tipo stasera?

Le andava.

E da quella sera eravamo stati insieme.

La prima volta che avevamo fatto l’amore lei mi aveva sussurrato all’orecchio, dì il mio nome, e io avevo detto Barbara.

La seconda volta mi aveva detto di chiamarsi Chiara.

E adesso sono quindici anni che stiamo insieme.

Quindici anni, oggi.

 

Avevo battezzato come nostro anniversario una domenica mattina. Mentre io ancora dormivo, lei era uscita a prendere il giornale e le paste per colazione, eravamo ancora nel nostro bilocale, dove capitava di dare feste e andare a letto con bicchieri rotti sul pavimento. Quando era rientrata aveva un vestito lungo e svolazzante e leggero, aveva ancora i capelli viola, sciolti, si era tolta il vestito rimanendo nuda. Aveva chiesto se ero sveglio, le avevo detto di sì, avevamo fatto l’amore come le piaceva farlo alla mattina, eravamo stati dolci e non avevamo mai smesso di baciarci, poi lei si era alzata, era andata in bagno a farsi una doccia e io ero rimasto lì a sfogliare il giornale. Quando era tornata si era messa di nuovo a letto, nuda, a farsi asciugare dal vento che entrava dalla finestra aperta, mi aveva appoggiato un piede sulla schiena e aveva iniziato a cullarmi, io mi ero girato e l’avevo guardata, una mosca le si era posata sul seno e lei sembrava troppo stanca per scacciarla, sembrava non le importasse. Mi aveva chiesto cosa avessi, le avevo detto che l’amavo, voglio farti un pompino, mi aveva risposto. Più tardi, mentre mangiava fragole tra le lenzuola, le avevo detto che quello sarebbe stato il giorno del nostro anniversario.

 

Mentre mi asciugo i capelli con l’accappatoio lei inizia ad alzarsi, è nuda, fatica a liberarsi dalle lenzuola dove sembra essersi attorcigliata, come se fosse intrappolata lì per sempre, sorrido. Le chiedo se vuole una mano, no, dice. Riesce a mettersi seduta sul materasso grattandosi la schiena, allunga una mano a prendere il pacchetto di sigarette sul comodino, se ne accende una, poi si alza in piedi e scende le scale.

Hai preso le medicine?

Sì, le rispondo.

Esco in giardino, innaffio i fiori che sono sulle finestre, innaffio il prato mentre mi fumo una sigaretta, guardo le lucertole correre lungo il marciapiede e mi ricordo di quando, davanti al garage, avevano fatto il nido i rospi, mi ricordo di quando avevo chiamato Chiara per farglielo vedere, mi ricordo che lei aveva gli occhiali da sole, aveva alzato le spalle. Metto il regalo che le ho comperato in macchina, nel baule. Quando rientro indossa un paio di jeans stretti, neri, una canotta nera senza reggiseno e un cardigan nero di cotone che tiene allacciato in vita, è struccata, ai piedi un paio di sandali bassi, neri, i capelli che non si è lavata sono aggrappati a una matita, la matita è arancione.

Le dico che è bellissima, le do un bacio sulla guancia, lei si scosta appena, andiamo, dice.

La strada è diritta, Chiara non dice nulla, gioca con l’autoradio, tiene la mani sulle gambe, aperte, senza tenere il tempo di un vecchio pezzo degli anni sessanta, io sì, io picchietto con le dita il volante, resto anche io in silenzio e ascolto la canzone, poi lei spegne la radio che non è ancora finita. La campagna è stupenda lì fuori, il cielo incendia, mi sento al sicuro, l’orizzonte lontano, le montagne là in fondo, sul ciglio della strada un gatto si lecca le zampe e ci guarda passare.

Arriviamo al ristorante, Chiara scende senza dire una parola e si avvia lungo il vialetto d’ingresso, io mi fermo a fumare, a prendere il regalo dal baule per metterlo sul sedile del passeggero. Avrei voluto tenerle la mano.

Chiara è già seduta con gli occhi sul menù, dico alla cameriera che mi piace la sua maglietta, lei sorride mentre mi accompagna al nostro tavolo, Chiara non alza lo sguardo. Ordino una bottiglia di Amarone, dico che è il nostro anniversario, che dobbiamo festeggiare, la cameriera ci fa gli auguri mentre Chiara continua a leggere il menù.

Verso il vino nei bicchieri, alzo il mio e le dico che la amo, le dico che questi sono stati i quindici anni più felici della mia vita. Lei mi guarda, ha le labbra che tremano, ha la pelle attorno alle labbra che si contrae, trema e sembra che a tremare sia ogni cosa, gli occhi, le pupille, le palpebre, il naso, la pelle, io la guardo, il bicchiere ancora alzato, ha gli occhi gonfi adesso, il viso arrossato, guardo un mare che si nasconde lì di dietro, dietro quelle palpebre, sopra gli zigomi, quegli zigomi. Ho paura. Lei continua a fissarmi con quegli occhi che sembrano infrangersi, poi con la mano se li asciuga, bagnandosi le guance, deglutisce, prende il bicchiere, lo alza, cin, dice, tremante. Bevo un goccio di vino, è buono, appoggio il bicchiere sul tavolo. Una famiglia entra nel ristorante, l’entusiasmo del bambino ricopre il vociare sussurrato degli altri che sono qui, ordiniamo. Aspettiamo restando in silenzio, guardo il bambino che corre tra i tavoli, anche Chiara lo guarda, poi lui guarda noi e si ferma nella corsa, immobile ci fissa, le mani lungo i fianchi e, nella mano, un supereroe giocattolo, lo saluto, lui si scosta e torna dai suoi genitori, la madre lo prende in braccio, lui continua a guardarci, Chiara gli sorride, lui le sorride di rimando, non sta più tremando.

Penso ai figli che non abbiamo avuto, alle vite che non abbiamo avuto. Penso al fatto di essere qui, in questo paese, e non altrove a seguire le nostre ambizioni, penso alla mia vita davanti a un tòrnio e penso ai mesi passati in ospedale, ai mesi in cui lei era lì a tenermi la mano quando le permettevano di entrare, solo quando mi comportavo bene, a quella volta che il dottore le ha detto, non sarà facile restargli vicino.

 

Mentre pago il conto, lei si infila il cardigan, lo allaccia, la guardo dallo specchio dietro la cassa, la guardo uscire, poi la raggiungo.

Mi dai una sigaretta? mi dice.

Io le allungo il pacchetto, fumiamo guardando le stelle nel cielo, i grilli cantare, le zanzare ronzare, è stretta nelle braccia, vorrei mi raccontasse una storia.

In macchina trova il regalo, mi guarda, le dico ti amo, poi la guardo mentre lo scarta, metto in moto la macchina, torniamo verso casa, la strada è stretta, è buio, l’orizzonte non si vede, come se non ce ne fosse uno, ci siamo solo io e lei, e il tricheco di peluche che Chiara sta fissando negli occhi senza dire nulla.