Davide Ricchiuti, Il bambino è scomparso

Ambientazione: Milano

Capita spesso che gli esordienti tentino la carta del finale a sorpresa, un espediente letterario che (secondo una mia personale statistica) non gli riesce quasi mai. Assai meno percorsa invece è la strada del surreale. Quando in un racconto all’apparenza realistico compaiono all’improvviso elementi che ne scardinano la logica l’effetto è molto più efficace. Lo dimostra questo racconto di Davide Ricchiuti, storia di un uomo chiamato a compiere scelte professionali impellenti e che comincia a vedere nella realtà che lo circonda segnali folli ma forse di grande utilità. In fondo, chi l’ha detto che una scimmia non possa essere una buona consigliera?

Davide Ricchiuti, Il bambino è scomparso

I

Non è stato facile.

Il giorno in cui ho deciso di diventare equilibrista non avevo nessuna esperienza di circo. Mio padre praticava spesso la tecnica laparoscopica mini-invasiva nel reparto di urgenza di un ospedale nella periferia di Milano per dare sollievo ai pazienti con occlusione intestinale, e voleva che anch’io continuassi a fare del bene agli sconosciuti studiando medicina come aveva fatto lui a suo tempo.

Io avevo sempre sognato di far parte del mondo della magia, più che di quello della scienza. Quando indossavo il cilindro e mi fregiavo del titolo di equilibrista con un piccolo frac regalato da Babbo Natale e una bacchetta magica in mano, avevo nove anni e gli altri bambini mi rispettavano. Passavo da un’albero all’altro del giardino su una corda tutti i pomeriggi dopo la scuola. Ma mio padre era al lavoro quando mi esercitavo. Mi aveva portato al circo due o tre volte, e quando era a casa mi parlava di futuro, soldi, stabilità, la vita è dura, quando cresci non deludermi, datti da fare, lo puoi fare. E a diciannove anni l’ho fatto. Ho accettato che quella del medico d’urgenza potesse essere la mia strada. Mi sono laureato, specializzato, ho praticato. Peccato.

Della passione iniziale, adesso che avevo compiuto trentacinque anni, rimaneva solo routine. In reparto siamo in quattro e facciamo turni piuttosto massacranti, un week end libero al mese. Non ci viene pagato lo straordinario e ci viene imposto di ridurre le ore di accesso notturno. Non abbiamo diritto a ferie scientifiche, né per aggiornamento.

 

 

II

 

Rachele mi ha chiesto “C’è qualcosa che non hai mai fatto in vita tua e che vorresti fare?

Il sole mi solleticava le gambe con qualche punta di sale nel vento, mi sono voltato sul fianco destro mentre ero disteso sulla sabbia finissima e osservavo il colore dell’acqua che si spalmava traslucida sulla spiaggia della Ilha Graciosa, nelle Azzorre, come marmellata di cobalto.

“Non saprei, che domanda…”

“Dai, io per esempio vorrei fare un lancio col paracadute”.

“Non male. Io non so se avrei il coraggio. Ma c’è una cosa che ho già fatto solo da piccolo e che vorrei rifare. Vale lo stesso?”

“Va bene, vale solo perché ho troppo caldo sulla spiaggia e mi voglio tuffare ora…”

Finite le vacanze, pensavo di prenotarle di nascosto un lancio col paracadute per il primo weekend libero che avremmo avuto, ma Rachele mi ha preceduto. Sono stato imprevedibilmente trascinato, letteralmente tirato per la camicia nel circo di passaggio più vicino a casa nostra, proprio l’ultima domenica prima che io tornassi ai miei turni infiniti e lei al suo contratto a tempo determinato. In fondo stavo con Rachele anche per questo. Per l’inaspettato che squarciava la mia monotonia. Ma come potesse lei sopportare me in quel periodo della mia vita, ogni tanto me lo chiedo anche adesso.

Di quelle poche volte in cui ero andato al circo con mio padre, ricordavo perfettamente un equilibrista, due elefanti e almeno una tigre, ma chi poteva immaginare che avessero un odore così particolare, da vicino.

Ora li accarezzavo prima di ogni spettacolo.

Il giorno in cui ho preso la mia decisione, mio padre ha frantumato il vetro del suo cellulare lanciandolo per terra con la forza di un cinquantenne, anche se aveva circa vent’anni di più. Era disperato.

“Sei un pazzo, hai studiato anni, hai preso i voti migliori, sei, anzi, eri l’orgoglio della famiglia, cazzo! Che cosa ti attraversa il cervello? Ti sei rincoglionito? Tu e quell’infermiera con la testa per aria che frequenti!”

Ma non era colpa di Rachele.

 

 

III

 

Quel giorno in cui siamo entrati nel circo, una scimmia mi si è avvicinata prima dello spettacolo. C’era un gran fermento in quel frangente, questo è vero, le persone stavano prendendo posto, una musica squillava di flicorni leggermente fuori sincrono tra loro in sottofondo, strani figuri che sembravano avere avuto un’iniezione di vita per staccarsi dalle tele di Toulouse Lautrec roboavano a squarciagola versi incomprensibili.

Rachele nel frattempo era uscita dal tendone un attimo – o un’eternità, non ricordo bene – per rispondere alla telefonata di un’amica e io ero solo. O meglio, ero circondato da estranei che parlavano di banalità nell’attesa dell’inizio.

Ma quando la scimmia mi si è piazzata di fronte nel frastuono, potrei giurarlo, ha pronunciato queste parole: “Ti osservo attentamente da quando sei entrato perché hai un’espressione perplessa, non saluto mai nessun visitatore qui, ma per te faccio un’eccezione perché sembri tanto triste in un luogo così allegro. Secondo me hai bisogno di un consiglio. O sbaglio?”

Ora ero interdetto, più che perplesso.

Avevo studiato l’area di Broca nella circonvoluzione frontale del cervello e anche l’area di Wernicke nel lobo temporale, e sapevo perfettamente che gli scimpanzé nani potevano fare mille cose, ma non articolare suoni in modo così preciso da riprodurre il linguaggio umano. Ne ero certo. Ho avuto un brivido rapido tra l’avambraccio e la scapola sinistra.

Guardavo a destra la sedia vuota di Rachele e dall’altra parte un bambino che diceva al padre “Una scimmia!… Una scimmia che parla!”, ma il padre, giovane e sicuro di sé, rideva sarcastico ammonendo il figlio a non dire scemenze. Proprio così: “Ma non dire scemenze!”.

Ho fissato il bambino e mi sono girato di scatto verso la scimmia. Era ancora lì.

Ho cominciato a sudare rimanendo immobile.

I suoi occhi animali addosso. Fissi. Ero braccato. Dopo un tempo indefinito ho risposto balbettando “Si… hai… forse… hai… hai… ragione”.

“Certo che ho ragione”, perentoria la scimmia.

I flicorni stavano salendo di tonalità, e i personaggi alla Toulouse Lautrec si diradavano velocemente dietro una specie di sipario di velluto rosso amaranto.

“Senti, io devo andare, ho ancora solo trenta secondi prima di iniziare. E tu hai ancora solo ventotto secondi prima che la tua donna torni a sedersi qui. Sappi che dopo questi secondi, che ora sono già ventisei, sei libero di fare ciò che vuoi col tuo bel titolo di studio, con il tuo bel lavoro, con la tua moralità. Se vuoi farti condizionare da qualcuno nelle scelte che riguardano la tua felicità, fai pure. Ma se nei restanti dodici secondi posso darti un consiglio pensa a questo: preferisci farti chiamare “dottore” durante il giorno, tornare a casa la sera sopraffatto dalla stanchezza, con il tempo per te stesso pari a quello che dedichi al sonno, e avere dubbi se uscire o meno per andare a vedere uno spettacolo come questo, o preferisci essere tu stesso lo spettacolo e chiamare un dottore solo nel caso in cui tu ti facessi male durante un’esibizione?”

 

In quell’istante il padre si è disperato.

 

Un istante dopo Rachele è rientrata.

 

Due istanti prima la scimmia ha sorriso.

 

Il bambino era scomparso.