NUMERO 11
MAGGIO  01
 

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STEFANO TASSINARI

Questo non è un racconto. E' il capitolo di un romanzo inedito che mi è capitato fra le mani mentre leggevo i testi del "Premio Linus-Euroclub", della cui giuria faccio parte. E' una sensazione davvero difficile da spiegare quella che si prova scoprendo un bel testo dopo ore di dattiloscritti illeggibili. E' una sorta di piccola euforia letteraria. E il romanzo di Tassinari, intitolato "Milano Jazz", è davvero un bel romanzo, al punto da essere arrivato secondo al concorso. Ma, dal momento che il premio prevedeva la pubblicazione solo per il primo classificato e che attualmente questo romanzo non ha ancora una collocazione, ho chiesto all'autore di concederne un assaggio a 'tina. Nella speranza che a qualche editore sorga la curiosità di leggere anche tutto il resto.

Monumentale Jazz

Dopo il matrimonio mancato è arrivato il funerale, quello vero. Il nostro Rocco, per anni voce dell'esperienza e manager del Furioso Jazz Quintet, ci ha lasciato. Se ne è andato in silenzio, senza una parola.
Alla 'notte dei vetri colorati', come titolava un fantasioso giornale di sinistra, ne era seguita un'altra, con lo stesso modello organizzativo e la stessa chirurgica precisione. Sono stati giorni di invisibile gloria. I quotidiani hanno sprecato varie pagine della cronaca locale per descrivere le nostre azioni, analizzare il fenomeno da un punto di vista sociologico, ipotizzare scenari destabilizzanti e devianze giovanili. Sono apparse anche un'intervista al questore e le condanne degli esponenti delle maggiori forze politiche.
Per Rocco nemmeno una riga. Non un necrologio, un commento, un trafiletto incastrato tra i dati dell'innalzamento della falda acquifera e le combattive dichiarazioni della giunta milanese. È svanito senza lasciare un alone, Rocco. Solo un letto libero all'ospedale Sacco e l'insignificante incremento del numero di vittime da Hiv.
Al funerale c'eravamo tutti: Giulio ha preso mezza giornata di ferie, Dado ha interrotto le prove dei Lennox Lounge, Ivan ha rinviato la riunione di gestione del centro sociale, Fede per un giorno ha chiuso i rubinetti dei suoi flussi finanziari e io, beh, non avevo molto altro da fare.
Al termine del necessario rito abbiamo cercato di allontanarci, ognuno diretto verso le proprie rassicuranti faccende. È stato tutto inutile: simulando fughe rallentate verso i quattro-cinque punti cardinali a disposizione, abbiamo finito per far ritorno al solito posto, alle solite panchine del solito parco.
Per fortuna il resto del pomeriggio è trascorso rapido e quasi indolore, risparmiandoci il supplizio della memoria e gli inopportuni fraseggi sull'ineluttabilità dell'Evento. La necessaria oscurità è scesa senza preamboli, accompagnata da qualche sigaretta e dagli incontri di birre svogliate. Solo a quel punto sono ricomparse le parole. Il richiamo deve essere stato di Fede, o forse di qualcun altro.
"Dove l'hanno portato, Rocco?"
"Non lo so. Forse nel paradiso degli atei?"
"Intendevo dire dove lo hanno seppellito."
"A Musocco, credo."
"Come, credi? Vuoi dire che non sai dove l'hanno seppellito?"
"Secondo me l'hanno portato a Chiaravalle."
"Geniale. Dobbiamo andare a trovare Rocco e non sai nemmeno in quale cimitero lo hanno portato."
"E io cosa c'entro? Era Dado che si doveva informare."
"Forse dovremmo telefonare a sua madre."
"Un colpo di genio dopo l'altro. E cosa le diciamo: 'Signora Violante, ci chiedevamo dove stesse riposando suo figlio. Stasera non abbiamo niente da fare e vorremmo fargli un'improvvisata'."
"Più o meno quello a cui avevo pensato."
"Altre proposte del cazzo?"
"Defloriamo gli archivi del Comune con il computer di Fede. Ci deve essere un data base dove inseriscono defunti e relative sepolture."
"..."
"E se ce ne tornassimo tutti a casa? Io ne ho abbastanza."
Sì, ne avevo abbastanza anch'io. Ero stanco di passare le notti a dipingere i parabrezza, di presenziare a finti matrimoni, di giocare a guardie e ladri. Ne avevo abbastanza di interrogatori, funerali, corse in macchina e viaggi in tram intorno a me stesso. Da quando ero tornato non avevo fatto altro che rimbalzare da una notte all'altra, cercando di ricostruire una memoria e di distruggerne un'altra.
"Però dobbiamo proprio andarlo a trovare, Rocco."
Già, dobbiamo.
Strano quanto ti manchi una persona quando ti accorgi che non c'è più. A Rocco, negli ultimi sei anni non avevo quasi mai pensato. A dire il vero non avevo nemmeno pensato a un mio ritorno in Italia. Stavo bene in Messico, l'unico posto dove i miei progetti avevano preso forma. Ora di progetti ne avevo meno di zero. Non era mio quello di destabilizzare il sistema del traffico. Non avevo soldi né voglia per provare ad arricchirmi come faceva Fede. E non mi interessava la proposta di Dado di mettermi a suonare l'acid jazz con un gruppo di cabrones qualunque.
"Facciamo così," ha proposto Giulio, "andiamo davanti a un cimitero qualsiasi e suoniamo un paio di pezzi in onore di Rocco."
L'idea più balorda della serata è piaciuta a tutti. Abbiamo abbandonato la statua del Marinaio a vegliare sulle nostre panchine e siamo partiti alla volta di un cimitero. Erano presenti solo i componenti del quintetto originale. Ivan non aveva più notizie di Yuri da due giorni, e Matt aveva deciso di restare a casa dopo aver litigato con il fratello.
Alle undici di sera il viale di fronte al cimitero Monumentale sembrava una specie di drive in in movimento. Due lunghe file di macchine lumacavano accostate ai bordi della strada. I marciapiedi ospitavano lo spettacolo inscenato da alcune decine di viados camuffati da prostitute e prostitute travestite da ballerine di fila. Facevano di tutto per attirare l'attenzione degli automobilisti. E lo facevano bene.
Un quartetto di apparenti ragazze di colore esibiva i propri corpi indossando tanga minimi al solo scopo di nascondere i propri connotati sessuali. Una Marylin Monroe un tantino ingrassata tentava di riprodurre la scena madre di Quando la moglie è in vacanza, sollevando artificiosamente la gonna bianca. Un viado con l'estensione muscolare di Rummenigge sfoggiava i quadricipiti coperti da calzoncini non regolamentari. Una rossa parruccata si esibiva in un efficace vedo - non vedo grazie all'utilizzo alternato di uno spolverino marlowiano. Gli ultimi articoli del campionario si offrivano al miglior offerente dalla ribalta asfaltata, richiamando l'attenzione del pubblico con coerente gestualità.
Le auto seguivano lentamente le evoluzioni delle creature notturne per strappare brevi incontri ravvicinati. Un cicloamatore ha cercato di inserire il suo mezzo nella contrattazione tra un avventore targato Varese e una miss fasciata di fuxia senza ottenere la giusta considerazione. Una coppia annoiata ha ingaggiato due professioniste dell'eccitazione che si sono allontanate a bordo della macchina salutando le colleghe con la manina. Due minorenni a cavallo di uno scooter hanno cercato di procurarsi un assaggio gratuito suscitando le rumorose proteste di un metro e novanta di brasiliano.
Sul piazzale del cimitero c'era un venditore di bibite e tramezzini ambulanti, 'Tonino il re del panino'. Abbiamo parcheggiato a fianco del furgone, illudendo lo spacciatore di hot dog di poter estendere il suo portafoglio clienti.
Federico ha cominciato a scaldare l'ancia del suo tenore. Ivan si è passato intorno al collo la cinghia del rullante e ha preso a giocherellare con le bacchette, facendole volteggiare in faccia al cimitero. Dado non aveva con sé il basso, né avrebbe potuto suonarlo, quindi si è limitato a imitare Ivan. Giulio, nella stessa situazione del bassista, ha disinnescato un clarinetto sotto i nostri occhi sconcertati. "Prima di cominciare con il pianoforte suonavo questo," ha precisato.
Fede mi ha consegnato la tromba promessa, e io l'ho rigirata tra le mani osservandola come un essere misterioso, temendo che potesse prendere vita da un momento all'altro. Non suonavo da più di un anno, da quando me ne ero andato da Città del Messico, dopo la morte di Maria. Non che me ne fossi dimenticato, tutt'altro. Ero solo un po' intimidito, come se temessi di non essere all'altezza, di non riuscire a far arrivare il suono fino a Rocco. Alla fine ho preso coraggio e ho seguito Fede nel suo rito preparatorio. Ho premuto le labbra contro il bocchino e ho ripensato alla scrittrice senza nome incontrata sul tram.
Dopo qualche necessaria battuta per riscaldare un ambiente tenuto in vita solo dagli entusiasmi di puttane e puttanieri, abbiamo attaccato a suonare. Fede ha proposto di iniziare con un paio di standard. Nel primo, My favourite things, non riuscivo a tenere il tempo imposto da Ivan, così ho lasciato perdere, guardando gli altri suonare sotto gli occhi incuriositi dell'ambulante. Una brezza fastidiosa mi soffiava in faccia la puzza dei gas di scarico e degli altri profumi metropolitani.
Con My foolish hearth è andata appena meglio. Giulio ha cercato in tutti i modi di riprodurre la ritmica del piano con la provvisorietà del clarinetto. Gli effetti sconcertanti venivano sottolineati dagli sguardi intimidatori di Dado. Ma Giulio suonava con gli occhi chiusi e pareva ripiegarsi su se stesso ogni volta che il suo strumento emetteva dei segnali di resa. Ho evitato di inserirmi nel tema per dedicarmi a un breve assolo, giusto per provare l'attacco.
Ci siamo fermati a discutere. La maggioranza ha costretto Giulio a mantenersi su toni bassi, a seguire Ivan e Dado, a non avventurarsi in ottave irraggiungibili. Con il terzo pezzo, Himn of the orient, abbiamo ottenuto il consenso del barista viaggiante cui è scappato persino un applauso. Si è avvicinato un manipolo di ragazzotti dall'aria stralunata, sette-otto persone, non di più. Non eravamo preparati ad un'esibizione, né a fornire il sottofondo a quel bordello a cielo aperto. Ma ormai eravamo lì, e abbiamo continuato a ripassare il nostro repertorio.
Ogni pezzo durava molto più del dovuto a causa della nostra impreparazione. Per quanto Dado fosse bravo a marcare i tempi suggeriti da Ivan, l'assenza del suo basso si avvertiva terribilmente. Io non mi ricordavo gli attacchi e l'intesa con Fede risentiva della nostra lontananza. Le colpevoli pause dei nostri strumenti erano coperte dai salvataggi dei due rullanti. Ad ogni modo non sembrava accorgersene nessuno: le emissioni incontrollate della mia tromba venivano nascoste regolarmente dall'arrivo di altre macchine, giunte a parcheggiare davanti al cimitero un pubblico di neofiti del jazz. E la presenza del clarinetto giuliesco ha finito per essere notata solo per l'altezza ingombrante e la stravaganza dei movimenti del suo proprietario.
Rincuorati dal risultato ottenuto da un nostro arraggiamento di So what, ci siamo lanciati verso esecuzioni più azzardate. Ivan ha prodotto un assolo di batteria con i due rullanti e le inferriate del Monumentale. La notte cimiteriale ha preso una forma insolita e divertita. Richiamata dai nostri assalti al repertorio della Dirty Dozen, il preferito di Rocco, è arrivata una folla multiforme e multicolore. Abbiamo attirato mariti redenti, giovani affaticati dall'eccesso di scelta e sessantenni incerti se privarsi degli ultimi spiccioli della pensione d'anzianità. Alcune vedette del marciapiede hanno deciso di sfidare i loro papponi. Due passeggiatrici di provenienza australe hanno inscenato un samba sull'onda del Bahia di Coltrane. é stato il segnale che il piazzale del cimitero aspettava per cominciare a muoversi sotto gli sguardi compiaciuti dei santi.
Nel giro di pochi minuti lo spazio intorno a noi si è riempito completamente. Tonino il re del panino ha preso a vendere consumazioni come una piadineria di Riccione. Due ragazze sicure di trovarsi a un raduno rave mi hanno omaggiato di una birra, convincendomi a tradire il bocchino della tromba per il collo della bottiglia. Il sax di Fede ha ballato con la Marylin Monroe ingrassata; Dado si è esibito in alcuni passi di salsa con una figlia del Caribe; Giulio ha spiegato a un anziano musicista le sue difficoltà a comprendere a fondo le potenzialità del clarinetto. Una compagnia di amici ha eseguito una ola da curva calcistica. Una festa degna della memoria del nostro manager. Rocco avrebbe apprezzato.
La fredda Milano, città merdosa e incomunicante, laboriosa anche lungo i viali del riposo eterno, ha messo in discussione la sua efficienza e la sua moralità. Rocco avrebbe apprezzato anche questo.
Dopo Freakish ho deciso di smettere. Le mascelle mi facevano male e le labbra erano ridotte anche peggio. Avevo perso l'abitudine alla tromba. Fede ha proseguito per un po' da solo sotto gli sguardi delusi della massa. Poi si è esaurito anche lui.
Sono passati alcuni minuti di imbarazzante silenzio, tra i tentativi di un culturista in canottiera e coda di cavallo di rimorchiare un viado di San Paolo, e le grida di Tonino il re del panino, sino a quel momento attutite dal jazz. Dado ha dato dimostrazione del proprio fascino di artista raccogliendo i baci commossi di una coppia di ragazze di colore. Poi uno spettatore ha pensato bene di sostituirci con le frequenze sommesse dell'autoradio, invitando tutti a proseguire la festa. Il nostro jazz di strada è stato rilevato da una dance music raccapricciante, ma la maggior parte degli intervenuti non è parsa coglierne la differenza. Noi ci siamo tirati in disparte, commentando con imbarazzo i suoni radiofonici e con una certa soddisfazione la complessiva riuscita della nostra prova.
A guastare il guastabile ci hanno pensato gli sbirri. Richiamati da un comitato di moralizzatori di quartiere o da un guardone insonne, hanno interrotto i bagordi con gli strilli acuti delle sirene.
Il fuggi fuggi generale ha partorito un ingorgo da esodo ferragostano. Un'orgia di clacson cercava di farsi largo tra le auto accrocchiate sul piazzale cimiteriale. I poliziotti, alquanto alterati, fendevano l'aria con palette usate a mo' di racchette da tennis. Uno sbirro con l'aspetto del sergente Garcìa agitava la pistola per aria con proposito intimidatorio. Un suo collega selezionava le targhe da annotare con la scientificità del pari e dispari. Gli altri chiamavano a raccolta gli automobilisti per analizzarne le generalità.
Le professioniste del marciapiede si sono dimostrate anche professioniste della fuga. Hanno slalomeggiato tra i paraurti delle macchine incastrate, affanculando gli ipotetici clienti e riuscendo a far perdere le proprie tracce. Un viado dalla cadenza incerta mi ha lanciato un "ci vediamo, bello" che ho interpretato come un beneaugurante arrivederci. Fede ha tentato di seguirlo ma si è scontrato con la portiera di una Fiat Punto verde speranza.
"Lo sapevo che andava a finire così," ha commentato Tonino il re del panino con aria demoralizzata.
"E adesso cosa facciamo?" ha chiesto Fede massaggiandosi un ginocchio."
"Non facciamo niente, è più prudente," ha risposto Ivan rispolverando le sue certezze filosofiche.
Quello che dovevamo fare ce lo hanno suggerito gli agenti della buoncostume. Uno sbirro con i capelli tagliati a spazzola e gli occhi liquidi si è avvicinato alla nostra postazione, frustrando il nostro desiderio di neutralità. Ha prelevato i documenti di Ivan, Davide, Federico e Giulio chiedendo conferma dei loro dati anagrafici come se non fosse in grado di leggerli. Prima ha annotato nomi e cognomi su un taccuino, poi, carte d'identità alla mano, è andato a verificare sul computer di bordo della volante eventuali segnalazioni o procedimenti a carico. Un secondo agente controllava che i miei compagni non si allontanassero, ipnotizzato dai luccichìo degli strumenti musicali.
Io ho fatto di tutto per rendermi invisibile, schiacciato contro la cabina di guida del furgone di Tonino. Ma un terzo sbirro mi ha restituito all'evidenza della mia fisicità.
Mi ha chiesto i documenti.
"Non li ho."
"Come sarebbe, non li ha?"
"Sarebbe che li avete voi. Me li hanno sequestrati i suoi colleghi aeroportuali e hanno deciso di tenerseli. Si vede che gli piacevano."
Il giovanotto che avevo di fronte doveva essere di fresca nomina. Non aveva trovato di meglio che arruolarsi nella pubblica sicurezza. Ha chiamato il suo diretto superiore.
"Questo sostiene di non avere i documenti. Dice che li abbiamo noi."
Il nuovo arrivato aveva mascherato l'incipienza della calvizie con un taglio alla Telly Savalas. La pelle tesa e abbronzata del capoccione rifletteva le luci della discoteca-cimitero. Sembrava molto incazzato.
Si è piantato i pugni all'altezza delle reni, in una posizione rivelatrice delle sue convinzioni politiche. Ha gridato: "Come ti chiami e come cazzo fai a non avere i documenti?"
"Come ho detto al suo collega..."
"Mio collega un cazzo!"
Ci teneva a far capire chi comandava le operazioni. Aveva un alito pesantissimo, risultato di pranzi consumati durante gli inseguimenti ai malandrini.
Gli ho srotolato tutti i dati di cui avevo memoria, fino all'accoglienza dei finanzieri, dopo il mio arrivo a Linate. Nel tentativo di intenerirlo, gli ho descritto la mia situazione di profugo, il trauma del mio ritorno in Italia. Ho cercato di essere il più gentile possibile. Non volevo fornirgli il pretesto per mettermi le mani addosso, sapevo che non ci avrebbe pensato troppo.
Al termine del racconto mi ha squadrato per fissare i punti essenziali della situazione. Poi ha detto: "Di Francesco, portamelo in commissariato."
"Ma..."
"Ma, un cazzo!"
Piuttosto ripetitivo, oltre tutto.
"Quelli sono tuoi amici?" ha aggiunto rivolto al resto del Furiosi.
"Sì," ho risposto.
"Di Francesco, porta in commissariato anche loro."
Ivan si è avvicinato, aveva ancora il rullante appeso al collo. Ha fatto presente le sue ragioni: "Se ci portate dentro dovete fornirci delle spiegazioni. Abbiamo i nostri diritti di cittadini, questo non è uno stato di polizia."
Per tutta risposta Kojac ha tirato un colpo al rullante con il taglio della mano, ferendolo a morte.