NUMERO 11
MAGGIO  01
 

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MARINA MANDER

L'anno scorso ho letto uno strano libro di racconti, dedicato alla malattia: un'antologia sorprendente sin dal titolo ("Manuale di ipocondria fantastica") nella quale a ogni racconto era legato a un disturbo, reale o immaginario. Ho pensato: mhhmmm…, molto interessante. Così ho contattato l'autrice per chiederle un contributo per 'tina. Lei non ha tradito le mie aspettative, consegnandomi un surreale brano di erotismo botanico che è allo stesso tempo divertente, imprevedibile e (Dio mio!) persino eccitante. Attenti a questa Mander: vi dà il pollice, ma si prende la mano.

Pollice verde

Di lui, della loro vita insieme, un anno bisesto funestato oltremodo dal passaggio della cometa di Halley, lei non ne aveva più voluto sapere.
- Ne, sinjorino, mi vojagas en mi lando - gli aveva detto per dire basta, me ne torno al paesello.
- La hirundoj flugis trans la riveron - le aveva risposto lui, poetico, e poi aveva aggiunto, patetico: - car trans la rivero estis aliaj hirundoj.
Cioè: al di là del fiume ci sono altre rondinelle.
Niente da fare. Lei se ne stava andando sbattendo la porta e lui a bassa voce ripeteva:
- La kato saltas sur la tablo, la kato saltas sur la tablon..
Il suo amanto era, purtroppo, un appassionato di esperanto.
La kreinto de la lingvo Esperanto estas Doktoro Zamenhof, kiu nun estas kuracisto en Varsovio.
Dal doktoro kuracisto dovresti andarci tu - urlava lei mentre lui non la stava a sentire, vani i tentativi di farsi ascoltare.
Il suo amanto era affascinato soltanto dalle lingua del Dottor Ludwig Lazarus Zamenof, lingua franca che permettesse a tutti popoli di comunicare, dopo la morte del latino e l'eccessiva vivacità dell'inglese, (benché all'epoca del primo congresso esperantista di Boulogne-sur-Mer del 1905, nessuno avrebbe potuto supporre il dominio attuale dell'idioma di Albione eccetera eccetera) l'inglese, sottolineava l'amanto, e gli inglesi non li sopporto.
- Del resto, lo sai, l'esperanto aveva affascinato anche Tolstoj, ignoranta di un'amanta, dovresti capirmi.
- Tu non sei Tolstoj, ti pagano una miseria a cartella strozzinandoti sui refusi. Cosa ti serve comunicare con tutto il mondo in una lingua che non interessa nessuno, se non parli neanche con me ?
- Di che cosa vuoi che parli con una che scrive oroscopi per una rivista di analfabeti?
Così. Lui con la fisima della lingua del passato, lei che stilava predizioni per il futuro, chiaro che il presente fosse un presente in progressivo sfacelo.
Di quell'anno funestato dalla cometa di Halley e dal Dottor L. L. Zamenhof, la ragazza non volle patetici strascichi. Il fantasma di Lazarus le suggerì di alzarsi e camminare e lei non se lo fece dire due volte. Dalla casa dell'esperantista portò via solo un ricordo: una piantina con cinque foglie e pochissimo fusto. Una piantina invasata in vasetto di plastica, regalata in un momento di spropositata generosità.
- Non ti posso dare nulla, lo sai, ma questa piantina te la regalo con tutto il cuore: bela arbo, multa bela arbo a multa bela amanta.

Una piantina spinosa. La ragazza la traslocò nel suo nuovo appartamento mentre il sole entrava in saturno, la portò come unico souvenir di un viaggio sbagliato tra ruderi lessicali e strafalcioni sintattici. Acqua ogni dieci giorni, un piantina che richiedeva poca manutenzione. Già grassa di suo. Una sana dose di rincrescimento sarebbe bastata a farla crescere benigi e fortigi..
Quando la ragazza, soprattutto nei primi tempi, finalmente abbassava le palpebre sui propri sogni e ricordi - nul, du, tri, kvar, kvin... - ancora a contare le pecore in esperanto per abitudine, il regalo, appoggiato sul comodino al posto dei porta-ritratti con coppie sorridenti e cani e bambini che giocano a frisbee, la piantina spinosa e invasata, a sua insaputa, cresceva. Ogni giorno, qualche impercettibile millimetro, ses o sep, più o meno. La ragazza si svegliava e le sembrava di vederla già un po' più grande. Le piante grasse crescono per anni, secoli e anche di più, c'è una welwitschia nel deserto della Namibia più vecchia della cattedrale di Varsavia. Bisogna avere pazienza, dio Zamenhof, considerava la ragazza, ma quanta pazienza?
Una serie di fortuite congiunzioni astrali comunque lasciavano ben sperare.

Lunedì.
I progressi della piantina furono inequivocabili anche per l'occhio più privo di pollice verde, solamente dopo tre settimane. Il terzo lunedì dalla separazione, la piantina raggiunse miracolosamente i dek-ok centimetri, non in tutto il corpo a dir la verità, solo nel mezzo. E un certo turgore. Linfa espansa in tutte le foglie e in particolare, in quella centrale. Diciotto centimetri, erti e insolenti, già sull'attenti di prima mattina. La ragazza la misurò e poi ricordò:
- Oggi è il giorno dell'acqua. Se non ci fossi io a accudirti, che ne sarebbe di te? Rinsecchita, prosciugata, impoverita, derelitta, incartapecorita, avvizzita, liofilizzata, micro-ondizzata, dove vivresti, se non ci fossi io? In un negozio di piante, saresti, a competere con orchidee in scatola per signore sfiorite, e con kentie più esotiche e longilinee, e mazzi di rose, rose che gli innamorati tradizionali tradizionalmente regalano alle donne che amano, il mio no, il mio aveva un'anima anglofoba, sessuofoba e extraparlamentare. Però tu non appassisci e non ti vendono già moribonda in un ristorante.
Si sa, le ragazze, in solitudine, parlano con le piante.
- Bela arbo, belega, belega - continuò e la piantina, per la prima volta, sembrò scossa. Un fremito leggerissimo, durò solo un attimo. Le foglie, piene di sé, sode di polpa pasciuta, tremarono tutte.
- Bela e granda.
La piantina vibrò un'altra volta, tronfia del suo epitelio tornito.
Nessuno, né la ragazza né il suo amanto, aveva mai saputo a quale specie appartenesse la piantina comprata al mercato, invasata chissà quando da uno sciamano in disgrazia ma, questo era chiaro, trattavasi di piantina dolce e sensibile, nonostante le spine, almeno molto sensibile ai complimenti.
Bastarono infatti poche parole -bela e granda - per farla crescere altri settantacinque millimetri, in tempo reale, come nei documentari sulle meraviglie della natura.
La sera, quando la ragazza tornò dal lavoro, la piantina era lì, ancora in erezione, ad aspettarla.
- Ti proteggerò - pensò la ragazza - Io ti proteggerò.
Poi spense la luce ma non fu capace di dormire. Nella penombra ripensava sempre gli stessi pensieri.
- Perché non riesco a dormire? Che sia colpa della fotosintesi clorofilliana? La fotosintesi fa male agli esseri umani, le piante in camera da letto tolgono il respiro, bruciano l'aria, consumano l'ossigeno. Ma - riconsiderava un attimo dopo - una piantina così piccola, dopotutto, chi può danneggiare?
In realtà la ragazza non riusciva a dormire perché aveva voglia di far l'amore con qualcuno che non fosse se stessa.
- Kio pasas sub miaj fenestroj? Chi passa sotto alle mie finestre?
Poi gli occhi caddero sulla piantina, la ragazza si sforzò di indovinare i contorni delle foglie che nel buio ravvicinato del comodino parevano mostri, poi, abituandosi all'oscurità, riuscì a percepirla più distintamente, con le forme arrotondate di carciofo alla giudea, appetitose e succulente.
- Beligi e fortigi - le sussurrò, nel senso di "mi sembri più bella e più forte".
La piantina vibrò un'altra volta. Più decisa, adesso. Un fremito secco e irrevocabile, come quello dei terremoti. Ma il lampadario appeso sopra al letto rimase immobile, non c'era nessun terremoto. Solo un'onda sotterranea che giunse fino a lei.
E' piena di spine - pensò la ragazza - spine che fanno soffrire - nel pensarlo allungò lentamente la mano sul comodino fino a sfiorare la pianta. Le spine si staccarono facilmente, come se non avessero intenzione di ferire. Docilmente la piantina lasciò che la ragazza sfilasse dal corpo carnoso della foglia centrale ventisette aculei, lei li lasciò cadere nel portacenere, come a shangai. La foglia centrale si presentò liscia al tatto, forse appena increspata dalle sottili nervature che si irradiano sotto la superficie tesa dei vegetali, morbida e vellutata.
La ragazza non seppe resistere. La foglia, senza opporre troppa resistenza, con un rumore di biscotto spezzato, si lasciò strappare dal fusto.
Con la foglia la ragazza cominciò a fare l'amore.
Mi estis amata, mi estis amata, le parole dell'amanto bastardo le tornavano in mente, poco prima della separazione erano arrivati ai participi passati e ai verbi passivi.
- Avresti mai pensato di far l'amore con una foglia di pianta? - si chiese - Che importa - si rispose - L'ho già fatto con altre specie di vegetali, quelli con la pretesa di studiosi e intellettuali. Almeno questa non borborigma in una lingua desueta.
Se la infilò tra le gambe. Ebbe tre orgasmi facili facili. Poi scivolò nel sonno, la foglia di piantina ancora umida appoggiata sul cuscino vuoto dall'altra parte del letto.
Le apparve un'altra volta Ludwig Lazarus vestito come l'Uomo del Monte in un rigogliosissimo giardino dell'Eden: diceva di sì, approvando bonario la sua muliebre grazia e intraprendenza.

Martedì
La mattina dopo, nonostante la vista, a prima vista non edificante, della piantina mutilata sul comodino, la ragazza si trovò di buon umore. Merito dell'inclinazione botanica, che non aveva mai saputo d'avere, o del fortuito passaggio di Venere nel suo segno zodiacale?
Al giornale la ragazza, nonostante uno sciopero di cuspidi, mantenne un atteggiamento compassato e distante, i pensieri già altrove. Per la sera rifiutò un paio di inviti, pregustandosi un tête a tête. Loro due, in santa pace. Infatti fecero un po' di conversazione davanti a una bottiglia di Ferrarelle - tu questa sera non bevi - disse la ragazza alla sua piantina - bere troppo ti fa male.
La piantina non protestò.
- Che bello avere un vegetale di compagnia. Che bello, io sono il tuo sostegno e tu la mia bella epifita, non sei contenta?
La piantina, benché nessuno le avesse mai dato dell'epifita, nel senso di parassita, non fece una piega. La ragazza allungò una mano per accarezzarla.
- Cu vi estas sana? Stai bene?
La piantina, allora, vibrò ancora. Accondiscendente.
- Io ti do quello che posso, tu mi dai quello che poi, finalmente una convivenza adulta e civile - concluse la ragazza prima di trasferirsi con la piantina invasata nel vasetto in camera da letto.
Si tolse i vestiti, tolse le spine alla seconda foglia e gli orgasmi di martedì furono quattro, merito sicuramente di una maggior confidenza.
Domani - disse quasi nel dormiveglia alla seconda foglia adagiata accanto a quella del giorno prima, entrambe sdraiate accanto a lei - domani, primo quarto di luna crescente, vi rinvaso.

Mercoledì
Ancora in pigiama, alle otto e un quarto di mercoledì, la ragazza si diede da fare con le talee e un manuale di giardinaggio.
- Ma tu fiorisci, qualche volta? - domandò ai pezzi di piantina ancora incerti nei nuovi contenitori - comunque meglio di no, mi piaci così tutta verde, ancora acerba, più virginale.
Poi, invece di andare a lavorare entrò in una libreria per documentarsi, consultò sette volumi di botanica e floricoltura varia: piante da giardino con suggestivo villino, piante da appartamento in multiproprietà, piante da trilocale doppi servizi e portineria, da simpatico bilocale con cucinotto, da villetta-canile dell'hinterland produttivo, da stanza in sub-affitto e cesso sul ballatoio, quest'ultimo più che volume, un dépliant. Nessuno dei sette, però, dovette constatare la ragazza scorrendo l'indice con l'indice laccato e una certa impazienza, sembrava trattare, che disdetta, della sua piantina.
- O è molto rara, e quindi molto preziosa, o è talmente insignificante che la letteratura fai-da-te non la considera - pensò la ragazza - peccato, ci vorrebbe un tassonomo ma, in fin dei conti, che importanza hanno i nomi delle cose quando le cose non sono più cose ma sentimenti? Tu sei il mio vegetale di compagnia e questo ci basta, gli uomini e gli animali non sono altrettanti leali, appena possono giocano sporco.
- Sei malata? - le chiese l'amica dell'ufficio al telefono.
- Sì, non sto bene.
- Cos'hai?
- Male alle ovaie.
- Tipica reazione isterica per via di quello là.
- Quello là, chi?
- Quello lì, quello che ti ha fatto tanto soffrire.
- Ah, l'ex amanto? Acqua passata.
- Racconta.
- No, non te lo posso raccontare.
- Acqua passata - disse la ragazza infilando un dito nella terra completamente secca del vasetto di plastica della piantina originale. Le tre foglie rimaste già un po' cresciute, almeno di sedici o diciassette millimetri le due più lunghe, un po' meno quella più corta. Visto che sei la più piccola, por malgranda, ti tengo per un'altra sera, trattamento speciale. Troppi centimetri possono far male, tu sei l'ideale. La piantina, un puntaspilli non belligerante, si scosse di gratitudine. La ragazza, poche ore più tardi, strappò la terzultima foglia, la spogliò delle spine e non rimase delusa, che piacere potersi fidare.
Il problema era che ora, se le talee non fossero cresciute in fretta, la ragazza si sarebbe ritrovata, ancora prima del fine-settimana, con una sola foglia a disposizione.
- L'ultima la tengo per sabato, venerdì in bianco, che è meglio lo diceva anche il prete tra i miasmi di pesce dell'oratorio. E poi sabato è il giorno peggiore, la gente che è sola si svena, per forza, di sabato sera. Adesso ci sei tu a consolarmi.

Giovedì
Bonan tagon, disse la ragazza alla sua piantina, buongiorno! Il resto del giovedì passò come un giovedì, né carne né pesce. Poi, esattamente dalle ore ventidue e quarantacinque all'una e trenta, con la penultima foglia la ragazza si accarezzò tutta quanta, e contemporaneamente, dilatando il tempo in un'idilliaca dimensione futura, prese a fantasticare. L'unione con la sua piantina andava così bene, il ménage talmente appagante che chissà, magari con un po' di fertilizzante, la ragazza si chiese se una piantina potesse, in qualche modo, fecondarla. Un ibrido meraviglioso, loro due fuse insieme. L'ultima frontiera dell'ingegneria genetica e della riproduzione artificiale. Uno scandalo bioetico. La stirpe vegetanimale, estrema fantasia della tassonomia e il papa a inalberarsi su Piazza San Pietro.
- Mi estas amonta, mi sa che mi sto innamorando.
E' sempre così, la prima volta si prova per noia o curiosità, la seconda per vedere come va, la terza se non stai attenta all'ascendente, va a finire che t'innamori.

Venerdì.
In bianco.

Sabato.
Sabato di giorno la ragazza pensò tutto il giorno a sabato sera. Per ingannare l'attesa cercò di ricordare una poesia in lingua padre poiché la lingua madre non sortiva alcun effetto. Ora però, con l'esperanto, era un po' fuori esercizio, ciò che ricordava erano solo litanie di fonemi insensati, significati perduti, suoni svuotati. Ciò nonostante cercò di pronunciare quelli che parevano più gentili, con l'esperanto bisogna stare attenti, è facile incappare in un sacco di kappa, e le kappa, psico-foneticamente parlando, sono cattive. Con tono soave quindi mormorò:
plenigi,
lernigi,
bonigi,
malbonigi,
dormegi,
resanigi,
dormegi, dormegi.

Quando arrivò un'ora decente per portarsela a letto la piantina era già in brodo di giuggiole. L'ultima foglia tremava come una foglia, ma di piacere, non di paura. La ragazza la strappò lasciando nel vasetto un solo moncone diramato in cinque spunzoni irregolari, dalla foglia malgranda , con l'attenzione di chi ha acquisito una certa praktika , sfilò tutte le spine. Accarezzò più volte l'epitelio verde brillante, era la foglia più piccola e forse anche per questo la più desiderosa di fare bella figura. Infine, rompendo gli indugi di un petting quasi estenuante la utilizzò, come si dice, contro-natura. Nel farlo ripensò a lui, le due cose le sembrarono la stessa cosa.
Paroladanto, paroladisto ma okulo matematikisto ni falta che, lasciando qualche libertà al traduttore potrebbe significare, la matematica non è un'opinione.

Domenica
La domenica si presentò subito come una domenica, il languore di chi non sa cosa fare. Nel giorno dedicato al più solare dei pianeti del sistema solare cielo nembocumuloso con probabili addensamenti a nord-est e parziali precipitazioni su tutto l'arco alpino, voglia di piangere. Il vasetto vuoto, qualche stoppia di foglie recise, qualche filamento fibroso che trasuda un umore lattiginoso di tubetto di dentifricio mai chiuso, la festa finita, bicchieri con avanzi di Ferrarelle abbandonati qua e là e portaceneri pieni di cicche che nessuno si è preso la briga di svuotare. Un vago mal di testa e anche un vago dolore in mezzo alle gambe. Un leggero senso di colpa.
- Non ti preoccupare - disse la ragazza al vasetto invasato ma mutilato - ricrescerai - Bone mangi, multe trinki, longe vivi - proverbio formulato, oltre che in esperanto, anche nella maggior parte degli idiomi correnti che l'esperantista non avrebbe mai preso in considerazione.
- Ti curerò, ti nutrirò, ti darò la medicina, eccola qua - aggiunse - mostrando al moncone rimasto la pubblicità su una rivista femminile:
"Ormone fitostimolante per lo sviluppo delle tue piante".

Poi venne la prima notte senza foglie.
Pazienza - si disse la ragazza - non è che possiamo farlo tutte le sere - e si rigirò nel letto allungando il piede sulla metà vuota rabbrividendo al contatto con le lenzuola. Sprofondò nel sonno e nel giro di tri, kvar minuti sognò un sogno assai strano.
Per prima cosa sognò di pesci che le solleticavano i piedi. Un intero branco di pesci proliferanti si infilavano tra alluce e indice, e tra il medio, e poi tra tutte le altre dita dei piedi, pesci in bilico sul malleolo e pesci che risalivano la pianta in formazione, prima del piede sinistro, poi anche sul destro.
Ai pesci a poco a poco spuntarono i denti, la ragazza vedeva se stessa annaspare in un acquario di piranha che le attanagliano le caviglie e chele di granchio che le si avventavano contro moltiplicandosi, i polpacci in cancrena, il rosso del suo sangue tutt'uno con il rosso di carapaci già sbollentati. Poi vide due cani gemelli che digrignavano le fauci vicino alle cosce, due cani neri con il cervello abnorme compresso in una testa minuta grazie a qualche errore dei selezionatori di razze, i cani, di nome Ludwig e Lazarus si disputavano un femore, lo lanciavano da una parte all'altra del letto sbavando e ringhiando. Scomparirono nel buio rincorrendo anche il femore dell'altra gamba. Ora lei era senza gambe e non poteva più muoversi. E dalle onde delle lenzuola agitate emerse un leone, si avventò sul suo sesso, perché lei era lì, a gambe aperte, per così dire, se avesse avuto ancora le gambe. Le mascelle si serrarono inghiottendolo in solo boccone, restavano canali di vene spezzate e salpingi un po' dappertutto. Un dolore di vergine ferita pulsava imperterrito a livello del cuore. Allora un sagittario si precipitò da una distanza vertiginosa e con la freccia infilzò anche i ventricoli, fece breccia come un ariete, lasciando frammenti di aorta a scombussolarsi in un'inutile tachicardia. C'era solo un buco dentro se stessa, i segni zodiacali si erano accaniti contro di lei. Il sagittario ripartì in volo con le sue ali da putto, uscì dalla finestra, sorvolò le macchine parcheggiate lì sotto e andò ad appollaiarsi sul cornicione del supermercato, la faretra a tracolla.
Nel sogno della ragazza nel letto della ragazza rimaneva solo la testa, ancora attaccata alla spalle. Nella testa ronzavano domande che iniziavano per kappa:
kie estas mia kuracisti? (dov'è il dottore?)
kiu ploras tie-ci? ( chi si lamenta, qui?)
kiu mi mensogas? ( chi mi ha imbrogliato?)
finché un'incornata di toro non le ridusse a brandelli, una dopo l'altra, interrompendo la lezione numero 4 sulle forme verbali interrogative e portandosi via anche un pezzo di collo.
Si ritrovò soltanto con una porzione di sé appoggiata sul cuscino, la bocca aperta e gli occhi spalancati da santa decollata a chiedersi, padre dove sei in questo momento? A guardare il grande fratello? Il corpo scomparso, menomato, reciso. Al suo posto solo il tormento cento per cento di un incubo splatter.
kiu mi mensogas? ( chi mi ha imbrogliato?)
Uno scorpione le si infilò in bocca e le morse la lingua paralizzandola col suo veleno e lei non poté più nemmeno lamentarsi o gridare, avrebbe voluto urlare ma le parole restavano dentro appiccicate alle mucose come afte sierose. Muta dappertutto, solo negli occhi un barlume di vita.
Allora la ragazza, con uno sforzo enorme li aprì, sollevò la saracinesca delle palpebre per sfuggire a tutte quelle orribili visioni, cancellarle per sempre e non esagerare mai più con i vizi, soprattutto quando è prevista un'eclissi.
Guardò il letto.
Il letto era vuoto, il suo corpo scomparso, solo il cuscino leggermente infossato, dove doveva essere stata appoggiata la testa. Qualche capello appiccicato alla federa. Con gli occhi vagò per la stanza, anche la stanza era vuota. Si cercò dappertutto senza riuscire a trovarsi. In un tentativo più che disperato rovesciò i bulbi all'indietro per vedere dal di dentro che Zamenhof fosse successo.
Solo allora capì.
La ragazza, o meglio, quello che era rimasto della ragazza, se ne stava abbarbicata nel cuore delle foglie della pianta, cresciute in una sola notte a dismisura, strabordanti dal comodino. Le foglie erano disposte a ventaglio e i suoi due occhi lì in mezzo, come due macchie di cocciniglia su un ficus malato, i bulbi fissavano stralunati le foglie della piantina, le foglie della piantina, bela e granda come non mai, si succhiavano le dita.
Nella penombra della stanza dove non c'era più la ragazza era ancora possibile leggerle il pensiero negli occhi:
- Una pianta carnivora, ecco cos'eri, figlia dell'amanto dell'esperanto, bastardo e scorpione. Come tutti gli scorpioni , anche un po' vendicativo.
Espero, mi amanto che....
Non riuscì a terminare la frase.