NUMERO 11
MAGGIO  01
 

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MATTEO BORDONE

Se il fascino di un prodotto sta tutto nella confezione, allora è innegabile che il vero appeal di ogni televendita risiede nello sguardo, nella voce, nelle movenze del venditore. Ed è proprio su questa parabola di marketing mediatico che Matteo Bordone, già acuto testimone di lanci promozionali santacrociani, decide di porre il suo sguardo sornione e truffaldino, succube di un'attrazione incontrollabile. La regina delle antenne commerciali italiane come oggetto d'amore e ammirazione? Come diceva Andy Warhol per definire la vera essenza della pop-art: "Tutto è buono".

L'astro sfolgorante di Telemarket

Per anni sono andato a letto presto la sera perché ero uno dei pochi in tutta Varese a non prendere Telemarket. Anzi.
La vedevo, in bianco e nero, ma l'audio era come appoggiare l'orecchio nel cavo di una conchiglia. E io mi stufavo di vedere che mi parlavano e sentire il mare. Nonostante la passione, desistevo.
Telemarket è in provincia di Brescia, a Roncadelle, immersa nelle nebbie zincate dell'operosa provincia lombarda.
Quando capitava di andare a una festa a casa di qualcuno, gli altri magari limonavano, bevevano, fumavano, io delle volte mi piantavo davanti alla televisione. Certi mi prendevano per pazzo, cambia, dicevano, poi però chissà come mai stavano lì.
Poi, qualche mese fa, finalmente libero: il 25 Aprile della ricezione televisiva. Dopo anni di annose trattative trasversali e sotterranee, di mezze frasi nell'ascensore, cooptazioni dirimpettaie, compravendita di voti davanti alla casella della posta, portoni tenuti aperti troppo gentilmente per un secondo fine, alla fine il condominio nel quale vivo ha statuito che sì, si mette la parabola centralizzata.
Siccome io abito a ridosso della collina Campigli, con l'antenna normale prendevo tutto un po' male: Emilio Fede col ronzio e canale 5 con le righette che vanno e vengono.
Così un giorno sono arrivato a casa e c'era il decoder e si vedeva tutto bene, si vedevano i film in 16/9 si cambiava l'audio e si sentiva tutto in inglese, Emilio Fede niente ronzio, canale 5 senza righette che vanno e e vengono.
E soprattutto premendo con cura i tastini del telecomando del decoder, l'immagine è scomparsa un istante e quando è tornata un uomo con i baffi e la criniera che mi sorrideva, mi chiamava "adorato ospite" mi offriva quello che aveva. Sembrava non lo facesse per denaro, ma semplicemente per assecondare una spinta profonda dell'animo, radicata nelle viscere della sua natura: vendeva per amore.
Quell'uomo si chiama Paolo Frattini, è il più grande televenditore vivente, abita a Varese a duecento metri da casa mia ed è l'astro sfolgorante di Telemarket. La seconda serata del sabato è tutta sua.

Vorrò proporre loro qualcosa di realmente straordinario, graditi ospiti. Coloro i quali avranno la gentilezza e il garbo di prestarci ancora una porzione del loro tempo prezioso, avranno modo di considerare un Patek Philippe senza tema di smentita davvero straordinario.

Qualche tempo fa, nell'ultima giornata umida prima della siccità di quest'inverno, sono passato davanti alla biblioteca e l'ho incrociato: una figura eterea, quasi irreale, come sparata nell'aria grigia di un pomeriggio autunnale da un cannone fotonico nascosto.
Era Lui.
Vedere Paolo Frattini e poterlo toccare fisicamente sarebbe stato per me come essere sulla strada di casa verso Emmaus, incontrare un viandante affamato e offrirgli la cena; e solo dopo, al momento di portare in tavola il coniglio con le patate, scoprire che il capellone è Gesù Cristo il rivoluzionario, risorto dopo la morte.
Mi sono spostato leggermente sulla sinistra, in via Sacco, davanti alla biblioteca, e lui non mi ha nemmeno guardato.
Gli occhi li teneva fissi davanti a sé. Sembrava deambulare su piccole ruote fatte di spirito santo, tanto il suo movimento era costante, lineare, mistico. I capelli erano setosi, impalpabili, perfettamente curati affinché una scriminatura centrale li facesse ricadere ai lati del viso con la naturalezza erotica di una pala di Tiziano. Non aveva un ombrello ma indossava una cerata di classe, con una struttura simile a una mantella che copriva ampiamente le spalle ricadendo sulla schiena. Da lontano sarebbero potute sembrare, vi giuro, delle piccole ali.

Guardino, li prego, questi incarnati. Ne sentano il profumo, cari amici. Osservino il colore..aspetta, c'è un riflesso, come possiamo fare? Lo sposto... Ecco, ora puoi stringere sulla vergine. Ecco, beh, beh, amici, beh! Non credo di dover dire altro. Un dipinto del genere, mi credano, non può costare questa cifra. Non può. NON PUO' COSTARE QUESTA CIFRA!

Quella di Telemarket è una grande famiglia senza madri. Tutti sono figli di Paolo Frattini: nascono per gemmazione dalle pieghe immacolate della sua chioma.
In ciascuno dei suoi figli, gli altri venditori, esistono le virtù commerciali del padre, ma sbilanciate e terrene, laddove nel padre costituiscono un melange infallibile, etereo. Quando vende, Paolo Frattini è nel vuoto senza tempo e, letteralmente, levita dentro allo schermo.
Quest'inverno ho fatto le quattro di mattina a sentire Alessandro (giovane, entusiasta rampollo di famiglia) che proponeva uno scatolo di cartone con dentro sei chili di posate d'argento. Mentre le presentava accanto a lui c'era un bancale di scatoli. Ognuno costava qualcosa come 6.000.000 di lire. All'inizio ci saranno stati duecento scatoli sul bancale. Non è facile crederlo, lo so, ma Alessandro, presentatore toscano e ridente che si rivolge alle telefoniste dicendo "amore" "tesoro" "dolcezza", l'ha fatto fuori nel giro di un paio d'ore. Un bancale intero di scatoli di argento da sei chili.
Una, ha giurato, l'ha comprata anche per sé, perché l'argento, si sa, è un investimento. Non va mai fuori moda.

Non propongo loro questi tappeti per la loro magnificenza. Insisto con tappeti caucasici, perché ne adoro la schiettezza, la sincerità. Potrei offrirvi un Nain di Nain recente, perfetto, mai calpestato, ma tra vent'anni non avreste un tappeto come questo. So di chiedere loro uno sforzo. Si lascino guidare, lo prenotino, se lo facciano portare in casa propria e solo allora decidano.

Qualche tempo fa ho dato l'esame di storia contemporanea e mi ricordo che, parlando dello stile liberty, venivano citati questi mercanti parigini che lanciarono i motivi a volute floreali nei salotti borghesi di tutta Europa. Uno di questi si chiamava Daum. Vasi colorati in pasta di vetro. Me lo ricordavo bene.
Una domenica ho visto il Frattini vendere cinque vasi di Daum nel giro di venti minuti. Costavano una media di 15.000.000 l'uno.

I pezzi, sia ben chiaro, loro non li comprano. Chiamino, li prenotino in visione senza nessunissimo impegno. Ma non aspettino domani! Non si mettano nella condizione un giorno, adorati ospiti, di dire "Perché non ho speso quei soldi allora?!". Si facciano un piacere. Se lo facciano ORA!

Un pomeriggio di domenica ho visto il Frattini nella stanza. Il Frattini la domenica pomeriggio non è seduto davanti a un cromakey con dei gioielli ingigantiti fissi alle sue spalle. Quello succede la sera o la notte, quando vende preziosi e cronografi svizzeri.
Ma quando vende mobili, Egli è sulla terra, tra di noi. In quei momenti Paolo Frattini è nella stanza. In piedi. E si muove di continuo, scivola impalpabile in mezzo a mastodontiche collezioni, interi salotti stile impero, pendole, dormeuses, scrivanie, sedie, poltrone, veri e propri troni imperiali napoleonici, tavoli da pranzo in noce nazionale perfetti come nuovi, - guardate il lavoro a sbalzo sulle gambe, guardate la zampa leonina - che ci si mangia in tredici comodi, perfetti, vi giuro, da ultima cena.

Se io vi dico che un litro di benzina costa un litro di benzina costa 2.200 lire, voi che cosa mi dite? Sì, Paolo. Saranno 2.110, 2.120, 2.140 quello che è. Giusto? Ma se io vi dico che un litro di benzina costa 1.400 lire, voi che cosa mi dite? Paolo, non è vero! Sei...sei rimasto indietro! Giusto. Ecco. Stessa identica cosa. Una ribalta del genere, Inghilterra, giusta, costa 20.000.000. Se non sono venti potranno essere diciannove, come dissi pocanzi...

A stare dietro al padre, proprio nel senso che al suo confronto risulta perdente ma non umiliato, schiacciato, ridotto a poltiglia per cani come gli altri figliocci, c'è solo Willy Montini, critico e venditore d'arte.
Nella sigletta che anticipa i suoi programmi, Willy Montini chiacchiera animatamente con Achille Bonito Oliva. (Dario Ulivi, invece sfoglia un catalogo, accarezza un tappeto, ascolta un gruppo suonare un pezzo dei Weather Report. Paolo Frattini arriva semplicemente in motocicletta, toglie il casco e sorride come Sai Baba).
Willy Montini in ogni caso presenta l'arte contemporanea come nessuno. All'ombra dell'elefantino verde di Telemarket, Willy Montini dimentica un secolo abbondante di lingua italiana e apostrofa il pubblico: "Siano celeri", "Sappiano sentire il dipinto, ne sappiano cogliere, so che è difficile per televisione, la folgorante matericità" e altro. Così, in diretta, per ore, in qualunque fascia oraria.
Anche alle quattro di mattina, in qualsiasi situazione ipotizzabile, Willy Montini sorride delicatamente e snocciola le buone maniere della nonna. A volte ride da solo, composto e mai sopra le righe, davanti ai prezzi - tutti i prezzi sono da scontare di un tot, e di un ulteriore tot se si possiede una Telecard 3, cose da iniziati - e scuote la testa, non è possibile, questa non è più arte: sono investimenti di capitale.
Xavier Bueno, Emilio Scanavino, Aligi Sassu, Michele Cascella, Remo Squillantini uno dopo l'altro, i pittori contemporanei vengono presentati con calma. Pittori di punti neri su sfondo blu, di barchette scolorite, di croste bulbose che pulsano dalla tela sotto le lenti compiaciute di Willy. Tutti questi più i gradissimi. Anche Picasso. Anche Chagall. Ma soprattutto lui. Il massimo rappresentante della POP-ART italiana. Mario Schifano.
Mario Schifano.
Mario Schifano.
MARIO SCHIFANO.
Questo nome risuona come una litania. Ci sono sempre da vendere unici dipinti di Mario Schifano. Non esiste l'eventualità di essere per una sera risparmiati. Lo stesso Willy davanti a Mario Schifano allarga le braccia e sorride "Cosa volete che dica loro, signori...MARIO SCHIFANO". Telefoni. Lavatrici. Scritte stampatelle a spray, come sulle casse al porto.
Mario Schifano.
Quanti quadri ha dipinto Mario Schifano?
Quanti anni è vissuto Mario Schifano?
Mangiava, ogni tanto?
Aveva una vita sociale?
Faceva qualcosa oltre a dipingere?
O aveva un disperato bisogno di soldi, trenta figli da mantenere, il vizio del gioco, qualche tossicodipendenza segreta?
(E soprattutto perché così tanto Mario Schifano nella mia vita?)

Si rendano conto che questo non è quadro reperibile domani o tra un anno o quando loro preferiscono. Questo non è quadro su cui possono fare ripensamenti, tra un mese tra un anno. Questo dipinto c'è ora. C'è ora e credo di non dire un'assurdità se assicuro loro che domani, gentili amici, questo dipinto non ci sarà più.

C'è una certa ripetitività nelle vendite d'arte, nonostante Willy Montini. Si fatica a reggere tutta la diretta. Entrano in ballo questioni estetiche. Certi quadri piacciono, altri schifano.
Il sabato sera tornando a casa cerco gli orologi svizzeri. Cerco i Baum et Mercier, i Rolex di ogni modello, gli scheletrati di Gerald Genta, la solidità degli Omega, il delirio economico dei Vacheron et Constantin, dei Patek Philippe, delle scatoline di molle rotanti che costano 20.000.000. E lo faccio solo per vedere il sorriso da marcante veneziano di Paolo Frattini, che li sventola sotto la telecamera come reliquie medievali o autentici frammenti della croce.
Amo di Paolo Frattini il suo mestiere. Chi conosce sua figlia ed ha così la fortuna di frequentare quella casa, dice che è un uomo tranquillo, pacato, placido, al limite del pigro. Lavora molto, ma non è stressato. Gira in vestaglia per casa. La notte, quando non lavora, dorme il sonno dei giusti. Recentemente ha comprato un macchinone americano. Spesso è parcheggiato qui sulla strada.

Ascolta, non mi interessa sapere della centralina digitale. Io voglio l'immagine di quel Cartier dietro le mie spalle. Non mi interessa. Io sto facendo il mio lavoro, amico regista. Non mi riguardano queste cose. È un tuo problema. Tu stai facendo il tuo lavoro? Allora vedrai che ce la fai, anche perché io, amico caro, sennò non vado avanti.

Anche io dopo tutta questa esposizione mi sono preso un bell'orologio Rolex. Modello Oyster Perpetual, quadrante blu scuro. Movimento automatico. Impermeabile. Cassa e cinturino in acciaio. Spacca il secondo e certe volte me lo guardo soddisfatto.
Ma so che se Paolo Frattini mi stringesse anche solo la mano capirebbe tutto. Lo sentirebbe dal ticchettio, dalle vibrazioni che vengono dal profondo del cuore degli orologi, dal quadrante squadrato, dal meccanismo meccanico. Sentirebbe una lingua straniera dai polpastrelli stretti intorno alla mia mano, una purea di vocali e consonanti gridati in un'improbabile fabbrichetta con umidità all'80%, palme, insetti, rettili velenosi appesi agli alberi della gomma. Niente a che vedere con la pace celeste di Ginevra, l'espressione serena degli svizzeri che passeggiano tranquilli per le vie del centro. Gerani sui balconi.
Niente da fare, se ne accorgerebbe. Troppi particolari fuori posto.
Il mio Rolex è un falso di Taiwan comprato a Marina di Carrara, sulla spiaggia, per centomila lire.
Perdonatemi, maestro.