NUMERO 11
MAGGIO  01
 

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FERNANDO SORRENTINO

Misteri della comunicazione globale: cosa può spingere uno scrittore argentino - autore di un numero impressionante di romanzi, racconti, libri per l'infanzia e persino due volumi di interviste letterarie con Adolfo Bioy Casares (!) e Jorge Luis Borges (!!!) - a scrivere a me per chiedermi di essere inserito in 'tina? Non solo, ma anche con un esilarante e geniale brano di puro surrealismo sudamericano, peraltro con una versione firmata da una affermata traduttrice come Amina Di Munno? Io resto basito e onorato dalla richiesta signor Sorrentino, ma è proprio sicuro che intendeva questa rivista e questa forma di pubblicazione? (Che idea si saranno fatti di 'tina nel resto del mondo?!)
Gli artisti sono proprio strani. I sudamericani forse ancor di più.
Comunque grazie, Fernando (posso darti del tu?).

C'e' un uomo che ha l'abitudine di picchiarmi con un ombrello sulla testa

C'è un uomo che ha l'abitudine di picchiarmi con un ombrello sulla testa. Sono cinque anni proprio oggi dacché ha cominciato a picchiarmi con l'ombrello sulla testa. I primi tempi non riuscivo a sopportarlo, ora mi ci sono abituato.
Non so come si chiama. So che è un uomo comune, veste di grigio, alquanto brizzolato, ha un viso vago. L'ho conosciuto cinque anni fa, in una mattinata afosa. Leggevo il giornale, all'ombra di un albero, seduto su una panchina del parco Palermo. All'improvviso sentii che qualcosa mi toccava la testa. Era quello stesso uomo che ora, mentre scrivo, continua automaticamente e con indifferenza a darmi ombrellate.
In quell'occasione mi voltai indignato: lui continuò a colpirmi. Gli domandai se fosse impazzito: non sembrò nemmeno udirmi. Minacciai allora di chiamare un guardiano: imperturbabile e tranquillo continuò il suo lavoro. Dopo qualche attimo di esitazione e vedendo che non desisteva dal suo intento, mi misi in piedi e gli sferrai un pugno in faccia. L'uomo, emettendo un flebile gemito, cadde a terra. Dopo, e apparentemente facendo un grande sforzo, si alzò e riprese in silenzio a picchiarmi con l'ombrello sulla testa. Gli sanguinava il naso e, in quell'istante, sentii pena per quell'uomo e mi pentii di averlo colpito a quel modo. Perché, in realtà, l'uomo non mi percuoteva con quel che si dice ombrellate; mi dava piuttosto leggeri colpi, del tutto indolori. Certo che quei colpi sono estremamente fastidiosi. Tutti sappiamo che quando una mosca ci si posa sulla fronte, non sentiamo alcun dolore: ci irrita. Ebbene, quell'ombrello era una gigantesca mosca che, a intervalli regolari, si posava, qua e là, sulla mia testa.
Convinto di trovarmi di fronte a un pazzo, cercai di allontanarmi. Ma l'uomo mi seguì in silenzio, senza smettere di picchiarmi. Allora cominciai a correre (qui devo puntualizzare che ci sono poche persone veloci come me). Lui si mise a inseguirmi, cercando invano di assestarmi qualche colpo. E l'uomo ansimava, ansimava, ansimava e sbuffava tanto che pensai che, se avessi continuato a costringerlo a correre così, il mio torturatore sarebbe morto proprio lì.
Perciò rallentai la corsa e ripresi il passo. Lo guardai. Non c'era nel suo volto né gratitudine né biasimo. Solo mi picchiava con l'ombrello sulla testa. Pensai di presentarmi in commissariato e di dire: "Signor commissario, quest'uomo mi sta picchiando con un ombrello sulla testa". Sarebbe stato un caso senza precedenti. Il commissario mi avrebbe guardato con sospetto, mi avrebbe chiesto i documenti, avrebbe cominciato a farmi domande imbarazzanti, forse avrebbe finito per arrestarmi.
La miglior cosa mi sembrò tornare a casa. Presi l'autobus 67. Lui, senza smettere di colpirmi, salì dietro di me. Presi posto nel primo sedile. Lui restò in piedi, al mio fianco: con la mano sinistra si reggeva al sostegno; con la destra brandiva implacabilmente l'ombrello. I passeggeri iniziarono a scambiarsi timidi sorrisi. L'autista dell'autobus si mise a osservarci dallo specchietto. A poco a poco tutti i passeggeri furono presi da una gran risata, una risata fragorosa, interminabile. Io, dalla vergogna, ero paonazzo. Il mio inseguitore, al di là delle risate, continuò con i suoi colpi.
Scesi - scendemmo - sul ponte del Pacífico. Andavamo per il viale Santa Fe. Tutti si giravano stupidamente a guardarci. Pensai di dire loro: "Cosa guardate, imbecilli ? Non avete mai visto un uomo picchiare un altro con un ombrello sulla testa?" Ma pensai anche che molto probabilmente non avevano mai visto un simile spettacolo. Cinque o sei ragazzi cominciarono a seguirci, urlando come ossessi.
Ma io avevo un piano. Una volta a casa mia, cercai di chiudergli la porta sul naso. Non ci riuscii: lui, con mano ferma, mi precedette, afferrò la serratura a scatto, si divincolò in un istante ed entrò con me.
Da allora, continua a picchiarmi con l'ombrello sulla testa. Che io sappia, non ha mai dormito né mangiato nulla. Solo si limita a picchiarmi. Mi accompagna in tutti i miei gesti, persino nei più intimi. Ricordo che, all'inizio, i colpi mi impedivano di addormentarmi; adesso credo che, senza di essi, mi sarebbe impossibile dormire.
Tuttavia, i nostri rapporti non sempre sono stati buoni. Spesso gli ho chiesto, in tutte le maniere possibili, di spiegarmi il suo modo di procedere. Inutilmente: in silenzio continuava a colpirmi con l'ombrello sulla testa. In molte circostanze gli ho sferrato pugni, calci e - Dio mi perdoni - persino ombrellate. Lui accettava i colpi con mansuetudine, li accettava come un'ulteriore parte del suo compito. Ed è proprio questo il lato più allucinante della sua personalità: questa sorta di tranquilla convinzione del suo lavoro, quest'assenza di odio. Infine, questa certezza di compiere una missione segreta e superiore.
Malgrado la sua mancanza di necessità fisiologiche, so che, quando lo percuoto, sente dolore, so che è debole, so che è mortale. So anche che una sola fucilata mi libererebbe di lui. Ciò che ignoro è se lo sparo ucciderebbe lui o me. Non so nemmeno se, quando saremo entrambi morti, continuerà a colpirmi con l'ombrello sulla testa. In ogni caso, questo ragionamento è inutile: riconosco che non oserei uccidere né lui né me.
Del resto, ultimamente ho capito che non potrei vivere senza i suoi colpi. Ora, sempre più spesso, mi assilla un presentimento. Una nuova angoscia mi corrode il petto: l'angoscia di pensare che, forse quando maggiormente ne avrò bisogno, quest'uomo se ne andrà e non sentirò più quelle delicate ombrellate che mi facevano dormire così profondamente.


Traduzione di Amina Di Munno
[Tratto da: Imperios y servidumbres, Editorial Seix Barral, 1972.]