NUMERO 11
MAGGIO  01
 

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ANTONELLO ANGELI

Si scrive poco sul tema della morte. Ancor meno se ne scrive coi toni della compassione. Parlare di un corpo sventrato a colpi di pistola è più facile e scenografico che descrivere la lunga agonia di un genitore morente in una camera d'ospedale. Occorre coraggio. E capacità narrativa, per non cadere nella facile trappola del pietismo, del ricatto sentimentale. Per questo mi ha veramente impressionato il testo dello sconosciuto Antonello Angeli, ricevuto via mail. Angeli riesce a sostenere i sentimenti con padronanza e sensibilità, inframmezzando momenti dolorosi con tenui schiarite, osservazioni profonde con commenti ordinari, e concedendosi persino la parvenza di un sorriso ogni tanto. A dimostrazione che la leggerezza di 'tina può talvolta significare un modo differente di raccontare l'angoscia. Come testimonia la numerazione dei paragrafi, questi frammenti che mi ha inviato fanno parte di un corpus più ampio, che si preannuncia un lavoro importante e di cui spero sentiremo riparlare.

Tubicini

"Per me scrivere è volare, è accendere
un fuoco. Per me scrivere è tirar fuori la
morte dal taschino, scagliarla contro il
muro e riprenderla al volo"
(C. Bukowski)

1. Il respiro sempre più forte. E il sudore. Un sudore freddo, appiccicoso. Sulle braccia, sulla maglietta inzuppata. Il respiro che inciampa, si rincorre. Suda. Un respiro che suda e corre, sempre più veloce, sempre più incerto. Mio padre è immobile. Da questa mattina, ormai. Mentre il suo respiro riempie la stanza, le mie mani. Mi fa tremare le gambe. "Stai tranquillo, stai tranquillo, sono qui...Tra poco sarà tutto finito... Tra poco starai meglio... E' quasi passata... Stai tranquillo..." E lo accarezzo, gli accarezzo il viso. E sento le mie lacrime che urlano, la mia voce che mi cola dentro, un buco grande che nasce, che mi strappa le viscere. Vorrei scappare. Vorrei restare lì in eterno. Ma ho paura di non resistere più di un minuto.
Le due di notte: il respiro è più forte. Aumenta. Cresce. Devo contarlo. Devo contare quanti respiri ci sono in un minuto. Sapere. Sapere se cresce davvero. Trentotto. Mi sembrano trentotto. Riproviamo. Sì, ancora trentotto. Non c'è motivo di preoccuparsi. Posso stendermi qui affianco, sul letto 42 che è libero da un paio di giorni. Devo continuare a contare. Quaranta... quarantadue... Suda. Suda ancora. Lo scopro. No. E' freddo. Meglio coprirlo. "Stai tranquillo, papà, sono qui..."
E le mie mani! La mia mano calda sul suo petto fradicio, freddo, ansimante. Sento il suo cuore, impazzito, senza ritmo. Si intreccia col respiro. Una rincorsa pazza, disordinata. E' caos. Disarmonia.
E poi l'ossigeno, la mascherina che gli preme sul naso. Le tre. Le quattro. Non ce la fa, non ce la faccio. "Stai tranquillo, tra poco passa tutto", e lo accarezzo, gli poso la mia mano calda sul cuore, lo sento riscaldarsi. Poi la spalla, il braccio, e di nuovo il cuore, mentre i polmoni mi schizzano sotto le mani, la pancia sussulta, pulsa, le spalle pompano, disordinate. "Sono qui, stai tranquillo, tra poco è tutto finito". Stringo la sua mano, la tengo sul mio viso.
Il mannitolo, fategli una flebo di mannitolo prima che sia troppo tardi! Alle 6, di solito vengono alle 6: perché non arrivano? Perché non vengono a mettergli questa flebo? Perché? Le 6 e mezza, le 7, le 8... Mia mamma e mio zio sono qui. Piangono. Ho avuto paura che non trovassero più il suo respiro, ma il cielo è ormai chiaro; è chiaro sul mare che si vede da qui, nel porto di Savona. E il suo respiro ci tiene inchiodati accanto a lui, inciampandosi meno, adesso. Quasi si fosse abituato a quella corsa disperata in faccia alla morte.

2. Poi quella notte è finita. Verso mezzogiorno mio padre si è risvegliato dal coma e ci ha sorriso, senza dire nulla: con gli occhi aperti ci ha investito di calore, gurdandosi intorno, un po' smarrito e rincuorato dalla nostra presenza. Il suo appuntamento è rinviato: forse soltanto lui non lo sa. Potrà essere da un momento all'altro, potrà cogliermi di sorpresa, o travolgermi ancora in una notte di paura e sudore.

3. Il calore della sua mano. Quella notte resterà per il calore della sua mano, e per il suo sudore, il respiro forte. la paura. Ma più di ogni altra cosa la sua mano. La sinistra, quella con l'anello al dito. L'ho presa tra le mani, l'ho baciata, l'ho appoggiata al mio viso. Il suo dorso della mano sulla mia guancia, curvato sul letto. Ho pensato che avrei voluto fermare quella sensazione sul mio volto, il calore della sua mano immobile, appena appena rinchiusa sulla mia. Una presa leggera, che non saprò mai se era vera o se l'ho inventata io, bisognoso di un segnale più forte, in qeull'immenso immobile, in quella desolazione sudata e ansimante.

4. Aver deciso di scrivere mi dà sollievo, mi riavvicina alla vita; almeno credo. O forse mi dà sollievo soltanto perché mi allontana dal dolore, da questi attimi di vita: dalla vita. E questo sollievo, di vita o di fuga dalla vita che sia, mi infastidisce, come dà fastidio una dissonanza ricercata e fuori luogo, una quarta eccedente che ha bisogno di una cadenza adeguata per non disturbarci l'udito.

5. Mi impressiona e mi disarma il suo braccio destro, ormai immobile da giorni, con le dita gonfie, l'ago della flebo sulla mano, incerottato e attorniato dai lividi. Un braccio inutile, caldo, che subisce gli stimoli incontrollati e ritmici dei nervi, sino a spostarne le dita, a piccoli scatti, le dita stese inermi sul bianco del lenzuolo. Vorrei bloccarlo, immobilizzarlo, vorrei urlargli basta!, sta' fermo! Provo e riprovo a cambiargli posizione, angolazione; provo a tenerlo stretto, più in alto, provo a premere sul nervo che scatta, a cercarne altri, altri punti da cui dargli un comando coerente a tutta quella immobilità. Mi sembra il manifesto dell'impotenza, della disarmante ineluttabilità della fine lenta di un corpo impazzito, dominato da un disegno perverso e irrefrenabile, che non si accontenta di consumare e devastare, ma sventola ad ogni occasione le sue bandiere, vessilli di un'occupazione che avanza, di un dominio che dilaga.

6. Scrivo, sospeso tra emozioni già archiviate nei ricordi e ansie più grandi, ancora da venire. Scrivo, immerso in un quotidiano surreale, perso tra flebo, notti su una sdraio, cateteri, carezze, pochi sguardi, gesti spezzati, saluti accennati, sorrisi leggeri, torpore, infermiere, vicini di letto che cambiano, carrelli di medicinali, carrelli di riso in bianco, carrelli di pannoloni, carrelli di lenzuola sporche, coperte tutte uguali, menzogne. Scrivo, per raccontare quello che ho vissuto, ma che dovrò vivere ancora, più forte, più vero. Racconto la prova generale delle emozioni, la farsa dilaniante di un ultimo respiro rimandato, terrorizzato come sono dal suo ritorno, estasiato dai regali del suo rinvio, logorato dall'attesa di un evento ineluttabile che vorrei non avvenisse mai, stravolto da questa strana inversione degli accadimenti che mi ha fatto annegare nelle emozioni di un evento ancora da venire.

12. Il ricovero di mio padre stava andando per le lunghe, più delle altre volte. E questa volta i miglioramenti tardavano ad arrivare. Mio padre non era più sceso dal letto, se non per mangiare al tavolino della stanza dell'ospedale, posato di peso dagli infermieri sulla sedia a rotelle. L'ultima risonanza magnetica non lasciava presagire nulla di buono. I primi entusiastici risultati della chemio, che avevano prodotto una riduzione del tumore di quasi il 70%, avevano lasciato il posto ad una diffusione di infiltrazioni neoplastiche in diverse zone del cervello. Inutile proseguire la chemio, forse utile valutare una radioterapia, "se le condizioni fossero rimaste ambulatoriali", come aveva scritto il neuroncologo di Torino. Ma le condizioni non erano buone, ed ero preoccupato di come, già così debilitato e immunodepresso, avrebbe potuto sopportare la radioterapia. Comunque avevo deciso di lasciare Milano e trasferirmi per un po' a Savona, per aiutare mia madre, per stare accanto a mio padre, e per prepararmi, da vicino, al momento in cui la morte sarebbe arrivata. La contraddittoria alternanza tra disperazione e speranza mi spingeva anche a progettare una mia presenza a Savona fino a quando mio papà sarebbe rimasto in ospedale (la radioterapia sarebbe durata circa un mese, venti sedute, per 5 giorni la settimana), e per i primi tempi del suo ritorno a casa, fino a quando sarebbe di nuovo stato in grado di camminare e di uscire in compagnia di mia madre. Avevo deciso, così, di chiedere due mesi di aspettativa dal lavoro, dopo aver organizzato un passaggio di consegne e aver assolto alcuni compiti. Le condizioni di mio papà da qualche giorno stavano peggiorando rapidamente, ed io mi sentivo dilaniato tra il bisogno di restare a Milano ancora qualche giorno per organizzare la mia assenza di novembre e dicembre, e la sensazione di dover partire immediatamente, perché forse l'irreparabile stava già per succedere. La telefonata di mia madre sciolse ogni dubbio. Le sue lacrime e la sua preoccupazione mi fecero comprendere quanto si stava aggravando la situazione. Daniela decise di accompagnarmi, e partimmo immediatamente per Savona, la sera stessa. La notte seguente mio padre entrò in coma, ed io trascorsi quella notte tenendo la sua mano sul mio viso, dicendogli di stare tranquillo, e scoprendo di non essere affatto pronto ad affrontare il momento in cui il suo respiro affannoso e sudato si fosse inciampato per l'ultima volta. Ma ero assolutamente certo di voler essere lì, di voler vivere quello che stavo vivendo quella notte, per quanto straziante fosse. La morte, quella notte, decise di rimandarci ad un altro appuntamento. Ed io mi trovo qui, ora, a galleggiare tra la speranza, la gioia di potergli regalare, e farmi regalare ancora qualche sorriso, la consapevolezza di essere fragile e spaventato di fronte a ciò che sta per succedere, non certo che questo tempo possa davvero aiutarmi a prepararmi a quel momento, ma sempre più sicuro di non volerlo fuggire.

13. Oggi è arrivato un nuovo vicino di letto. E' del '32, come mio padre. Da ormai 5 anni gli è stato diagnosticato il morbo di Parkinsson. E' agitato, cerca di scoprirsi. di alzarsi; allucinato com'è vede bestie nel suo letto, bestie che gli salgono su per le gambe. Torno a guardare mio padre, che dorme tranquillo, i lineamenti del volto distesi. Il "Sig. Parkinsson" sembra molto più vecchio di lui. E' spaventato e disturbato, irrequieto e teso. La sua presenza e il suo stato mi rincuorano, tristemente. Ho provato ad immaginare mio padre in quello stato, e mi si è allargato il cuore a non vederlo così! E' proprio vero che ci si può sollevare da ogni dolore guardandosi attorno, scoprendo chi sta peggio di noi, entrando in empatia con il loro dolore. Non ricordo dove l'ho letto, ma l'ho letto recentemente; forse nel libro di Goleman, quello sull'intelligenza emotiva. Comunque sia, è triste pensare che il dolore degli altri può arrecarci sollievo: eppure è così. Non per cinismo, non per crudeltà: forse è solo una lucida via di fuga, un debole tentativo di trovare positività, di alleggerirsi per non affondare nella meschinità di un dolore egocentrico; scoprirsi solidali e fortunati, tristemente rincuorati.

15. La morte, poi, è poco più di un saluto. E io odio i saluti, e odio prolungarli.

17. Arrivato a questo punto della mia vita ancora non ho compreso se scrivere mi avvicina alla vita o me ne tiene al riparo.

18. Scrivere della morte di mio padre prima che questa avvenga è come cercare di vivere insieme passato e futuro; un tentativo di mitigare la forza della cronologia degli eventi.

19. Per scrivere ho scelto uno stile copiandolo da altri. E' lo stile del ricordo, che non richiede una ricostruzione dettagliata. Perché questo non è un racconto, non è una storia. Scrivo, sospeso tra la memoria e il presente, tra l'attesa e il rimpianto. Non è un diario, né un memoriale. Tanto meno un inno, un poema o un saggio. Non sono confessioni, che richiederebbero verità. Non sono invenzioni, che bandirebbero le banalità. Sono solo parole, parole e numeri; uno stile copiato, che mi si addice.

32 Goccia dopo goccia, lentamente. Uno stillicidio che assicura la vita, che la rappresenta. La flebo si cambia, e la vita continua a gocciolare. Sempre più lenta, inesorabile. Scivola via, al ritmo di una pioggia sottile. TIC. Tic. Tic.

33 Un tubicino in entrata, un tubicino in uscita. E in mezzo che resta?

36. Credo che in questi giorni mio padre mi stia insegnando molto di più di quanto avrei pensato di poter ancora imparare da lui.

37. Il signor "Parkinsson" vuole scoprirsi. Scalcia, spaventato dai pesci che vede nel letto. Avvicina le mani, e con le dita raccolte sembra preparare gli ami. Poi lancia pastura per i pesci, e solo dopo la lenza. Ma i pesci vogliono salirgli su per le gambe, morderlo, "Mi si infila nel buco, mi si infila nel buco... eccolo lì... presto, presto, mandalo via... vuol salire... mi si infila mica nel buco del culo!... eccolo lì... Ormai è dentro, lo sento dentro il buco del culo..." Non capisce d'aver soltanto riempito il pannolone.

46. Il "signor Parkinsson" ha traslocato. Al suo posto verrà trasferito un ragazzo sulla trentina; da giorni si lamenta, poche stanze più in là; notte e giorno, per il dolore. Pare che abbia un cancro, già in metastasi, ai polmoni, alle ossa. Il suo lamento è come un pianto strozzato, una implorazione alla propria madre. E' stata la sorella a chiedere che venisse spostato: "di là" non c'è mai silenzio, tutti gli parlano, uno è rimasto a lungo a guardarlo... Chiede un po' di riservatezza per il loro dolore, chiede riparo dalle curiosità, consapevole, forse, che ogni solidarietà non è abbastanza per sollevare da tanta afflizione. Chiede rispetto. E ha chiesto di poter mettere un paravento tra il letto di suo fratello e quello di mio padre. "Così ognuno ha il suo spazio", ha detto.
E' lo stesso paravento che le infermiere hanno messo affianco al letto di mio padre quando era entrato in coma, lo stesso paravento che mia madre ha sempre innalzato a simbolo infausto, a confine visivo tra la vita e la morte.
"Questa stanza deve restare così, con due soli letti", ha detto la caposala. E poi, rivolgendosi alla sorella del trentenne:" così è meglio, state più tranquilli, intanto qui la situazione è uguale", riferendosi alle condizioni di mio padre.

47. Questa stanza rimane così: una sala d'attesa per pochi "eletti".

48. Ecco il nuovo vicino di letto. Mi vengono le lacrime agli occhi a scrivere di lui. Trentanove anni; un melanoma. Sì, un neo, che dopo un paio di anni gli ha portato delle metastasi ai polmoni. E ora, da una quindicina di giorni, anche il cervello è compromesso. Sino a quindici giorni fa guidava, lavorava, giocava con i suoi bambini. Due, due figli.
La sorella non ne può più di sentirlo urlare dal dolore: "se ce l'avessi, gliela farei io, la morfina!". Poi mi racconta del fratello, della sua voglia di vivere, del suo chiedersi "perché, perché proprio a me", della sua voglia di fare la radioterapia, anche a costo di perdere tutti i capelli, ai quali teneva tanto... Adesso è qui, in "sala d'attesa".

49. Ho incontrato mio zio nell'atrio dell'ospedale. Stava andando via, dopo aver assistito mio padre per tutta la notte. Io gli stavo dando il cambio. E' stato lui a dirmi che il ragazzo di 39 anni, compagno di stanza di mio padre, è morto questa mattina.

50. Forse non ho il diritto di ricordare un sconosciuto, ma la morte, ogni morte, riguarda sempre un po' anche noi...

51. Ognuno di noi potrebbe portarlo dentro di sé, ognuno di noi potrebbe crescerlo, curarlo, coccolarlo, senza saperlo, sino a farsene divorare a poco a poco. Ognuno di noi potrebbe credere all'illusione di non averci nulla a che fare, di non incontrarlo mai. Uno su tre. Uno su tre finiremo col portare dentro di noi il seme dell'autodistruzione. E inizieremo a coltivarlo senza saperlo. E in questa ignoranza resteremo, sino a quando lui non avrà deciso di farsi riconoscere, di dichiararci una guerra della quale avrà già vinto le prime battaglie, senza darcene nessuna avvisaglia. Ognuno di noi, nell'ignoranza, può essere vittima di se stesso, di una parte di sé impazzita e assassina.
52. Cambiano i giorni, cambiano i cieli. Cambiano i compagni di stanza e cambiano le loro storie. Cambiano, con piccole sfumature, i ritmi quotidiani delle giornate in reparto. E cambio io, lentamente, senza accorgermi. Cambiano i miei pensieri, i miei dolori, il mio impegno. Cambia ancora, come fosse vita, il respiro di mio padre.

53. Un tubicino in entrata e uno in uscita, con tutte le parole che non ho saputo dire, e che ora non lasciano traccia.

62. Parole, parole, parole. Se non le avessi?

69. Rimango a lungo a guardare la figlia del vicino, affaccendata e dinamica nell'accudimento di suo padre. La guardo con un po' di sollievo per una incessante fatica che ormai ho abbandonato da giorni; la guardo con un po' di nostalgia per quei momenti che mi offrivano un minimo di scambio, ancora, con mio padre. La guardo con un po' di invidia per un'attività che allevia l'impotenza, che spinge avanti, anche quando si sa di essere irrimediabilmente immobilizzati dal dolore… Gira il papà, solleva il papà, scopri papà, sposta papà, un cuscino in più, un cuscino in meno, e arriva da mangiare, papà, e bevi un po' d'acqua, papà?, e guarda chi è venuto a trovarti, papà, e stai bene messo così, ti vuoi girare?… oggi stai meglio, papà…vedrai, ancora qualche giorno , papà…

70. Ancora qualche giorno, papà, o forse solo qualche ora.

87. Sono pronto, papà. Quando vuoi tu; io sono pronto.

98. Alla fine, in questo libro avrò scritto più volte la parola padre o la parola morte?

100. "Vedrai che succederà proprio così - ha detto la mia nonna-: uno sta lì tanto, e poi basta che si allontani un momento, basta che se ne vada un attimo in corridoio, ed ecco che succede". Lei naturalmente l'ha detto in dialetto. E io, naturalmente, le credo. Succederà così, ora lo so. Mia nonna è settimina, e in queste cose c'azzecca sempre.

107. Un tubicino in entrata e un tubicino in uscita. E liquidi che scorrono, sempre più lenti, che gonfiano i suoi arti sino a deformarli.

108. Non so se sono ancora in grado di ripetere il n° 87.

109. Non avevo mai toccato un morto prima di mio padre. Non l'avevo mai baciato.

111. E' una bella giornata di sole. Ed è pace. Questo voglio scriverlo, comunque. Una pace che mi sale dal cuore, una pace che si tiene per mano alla tristezza. Leggera… E' una bella giornata di sole.

112. Torna indietro, ti prego: non ho ancora imparato a stare con te.

113. Spento il gorgoglio dell'ossigeno, spento il suo faticoso ansimare. Il silenzio. Questo ricorderò di quel momento. La forte sensazione di silenzio che si è subito impossessata di me e della stanza, nonostante le voci, i rumori del reparto pieno di parenti in visita, di ammalati, di carrelli… La sua immobilità che aveva, finalmente, conquistato il silenzio.

114. Rallenta. Rallenta… Rallenta… Stop. Ancora uno sbuffo… Stop. Ancora uno, l'ultimo, … Stop… Il silenzio. La magia del silenzio.